Moll Flanders (Collins Classics) (29 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Lei alla fine mi invitò ad andare a stare a casa sua finché non avessi trovato qualcosa da fare, mi sarebbe costato molto poco, e questo io l’accettai con piacere. E poiché vivevo ora con un poco più di agio, feci i passi necessari per sbarazzarmi dell’ultimo bambino che avevo avuto da mio marito; e lei anche questo mi rese possibile, impegnandomi a pagare soltanto, se potevo, cinque sterline l’anno. Questo fu per me un tale aiuto che per un bel po’ di tempo io smisi il brutto mestiere che avevo da poco intrapreso a praticare; e con gran gioia mi sarei messa a guadagnarmi il pane con l’ago se avessi potuto aver lavoro, ma era una cosa molto difficile per chi non aveva nessuna maniera al mondo di far conoscenze.

Alla fine trovai, comunque, un po’ di lavoro in coperte trapunte per signora, sottane, e simili; mi piaceva molto, lavoravo sodo, e di quello incominciai a vivere; ma il diavolo ostinato, che aveva deciso di farmi restare al suo servizio, continuava a spingermi ad uscire di casa per fare quattro passi, e cioè per vedere se mi si presentava qualche occasione del vecchio tipo.

Una sera obbedii ciecamente ai suoi ordini e compii una lunga peregrinazione di strada in strada, ma non m’imbattei in nulla di redditizio, e rincasai molto stanca e a mani vuote; pure, non contenta di ciò, uscii la sera dopo, e, passando davanti a una birreria, vidi aperta la porta di una stanzetta, molto vicina alla strada, e sulla tavola una caraffa d’argento, oggetto di un tipo che si usava molto nei locali pubblici a quell’epoca. Si capiva che una comitiva doveva essersi trattenuta lì a bere, e i garzoni distratti s’erano dimenticati di portarla via.

Entrai con disinvoltura nella saletta e, piazzata la caraffa d’argento nell’angolo del banco, mi sedetti lì davanti, e battei col piede in terra; venne subito un garzone, e io gli ordinai di portarmi una pinta di birra tiepida, perché faceva freddo; il garzone corse via, lo sentii scendere in cantina per spillare la birra. Mentre quel garzone se ne andava, ne entrò nella sala un altro e disse: “Avete chiamato?” Io gli risposi con aria annoiata, dicendo: “No, bimbo; è andato già quel garzone a prendermi una pinta di birra.”

Seduta lì, sentii la donna al bar dire: “Sono andati via quelli del cinque?” che era la saletta dove mi trovavo io, e il ragazzo disse: “Sì.” “Chi ha ritirato la caraffa?” disse la donna. “Io,” disse un altro garzone, “eccola,” e a quanto pare indicava un’altra caraffa, che aveva ritirata da un altro tavolo per errore; o altrimenti era accaduto che il cialtroncello s’era dimenticato di non averla portata dentro, visto che di certo non l’aveva fatto.

Io sentii tutto ciò con grande soddisfazione, perché mi rendevo conto che la caraffa non risultava mancante, mentre quelli credevano che fosse stata già ritirata; bevvi perciò la mia birra, chiamai per pagare, e uscendo dissi: “Attento all’argenteria, piccolo,” e gli indicai un calice d’argento da una pinta, che lui m’aveva portato per bere. Il ragazzo disse: “Sissignora, grazie, arrivederci,” e io me ne andai.

Tornai a casa dalla mia governante e pensai che era venuto il momento di metterla alla prova per sapere se, trovandomi io nella necessità di cavarmela da qualche pasticcio, lei sarebbe stata in grado di darmi la sua assistenza. Qualche tempo dopo essere rincasata, e avendo avuto l’occasione di parlar con lei, le dissi che avevo da confidarle un segreto della massima importanza, se lei aveva tanta considerazione per me da esser disposta a mantenere il segreto. Lei mi disse che aveva già custodito gelosamente un segreto mio: come potevo dubitare che sapesse serbarne un altro? Io le dissi allora che m’era capitata la cosa più assurda del mondo, motivo per cui ero diventata una ladra, senza averne nessuna intenzione, e le raccontai tutta la storia della caraffa.

“E l’hai portata con te, mia cara?” dice lei.

“Certo che sì,” dico io, e gliela mostrai. “Ma ora che devo fare?” dissi; “devo riportarla?”

“Riportarla?” dice lei. “Sì, se hai voglia di farti mandare a Newgate per furto.”

“Ma,” dico io, “quelli non saranno così vigliacchi da farmi arrestare, se io gliela riporto.”

“Non conosci quella gente, piccola,” dice lei. “Non solo ti porteranno a Newgate, ma ti faranno anche impiccare, senza preoccuparsi dell’onestà dimostrata da te col restituirla; faranno il conto di tutte le altre caraffe che hanno perduto, e faranno pagare te per tutte.”

“E allora che devo fare?” dico io.

“Ecco,” dice lei, “visto che ti sei portata da furba e l’hai rubata, adesso devi anche tenertela; ormai non si torna indietro. E poi, piccola,” dice, “non ne hai forse più bisogno tu di loro? Io ti augurerei di fare ogni settimana un affare così.”

Questo mi dette una nuova idea della mia governante, e del fatto che, da quando s’era messa a fare l’usuraia, aveva intorno persone ben diverse da quelle oneste che in quel luogo avevo conosciuto un tempo.

Non restai lì molto tempo ancora senza scoprire anche meglio come stavano le cose, perché continuamente vedevo portare else di spade, forchette, cucchiai, caraffe, e altra argenteria d’ogni genere, non per pignorarla ma per venderla sottobanco; e lei comprava senza far domande tutto quel che arrivava, ma faceva ottimi affari, come appresi dai suoi discorsi.

Scoprii anche che per svolgere quel suo mestiere lei fondeva sempre l’argenteria che comprava, in modo che non potesse essere riconosciuta; e una mattina venne da me a dirmi che stava per fondere e che, se volevo, poteva metter dentro anche la mia caraffa, così nessuno avrebbe mai potuto trovarla. Ben volentieri, le dissi io; così lei la pesò, e mi ridette l’intero valore in argento; ma mi accorsi che con gli altri suoi clienti non faceva così.

Qualche tempo dopo, mentre stavo lavorando, ed ero piuttosto triste, lei si mette a chiedermi che avevo, secondo il suo solito. Io le dissi che mi sentivo un peso sul cuore, perché avevo poco lavoro, non avevo di che vivere e non sapevo che strada prendere. Lei rise, e mi disse che dovevo uscire ancora in cerca di fortuna; poteva darsi che m’imbattessi in qualche altro pezzo d’argenteria.

“Oh, mamma,” dico io, “è un lavoro nel quale non sono per nulla brava, e se mi dovessero prendere sarei bell’e perduta.”

Dice lei: “Potrei mandarti da una maestra che ti farebbe diventare brava quanto lei.”

Io tremai a quella proposta, perché fino a quel momento non avevo né colleghi né conoscenti di quella razza. Ma lei sconfisse la mia ritrosia e tutti i miei timori; e in breve tempo, con l’aiuto di quella collega, diventai una ladra coi fiocchi, brava addirittura come Moll Tagliaborse, che però, se la sua fama non le fa torto, non valeva nemmeno la metà di me come bellezza.

La collega alla quale la governante mi affidò lavorava in tre specialità del ramo, e cioè taccheggio di negozi, furto con destrezza di casse di negozio e di portafogli, e scippo di orologi d’oro dal fianco delle signore; in quest’ultima era tanto brava che mai nessuna donna giunse a tale perfezione d’arte da saperlo fare come lei. A me andarono molto a genio la prima e l’ultima delle tre specializzazioni, e le fui vicina per qualche tempo nel suo lavoro, come un’apprendista assiste una levatrice, e cioè senza paga.

Alla fine lei mise anche me al lavoro. Mi aveva mostrato ogni trucco della sua arte, e io ero già riuscita più volte a sganciarle un orologio dal fianco con notevole bravura. Infine fu lei a indicarmi l’obiettivo, e cioè una giovane signora che aspettava un bambino e aveva un orologio delizioso. La cosa era da fare quando quella usciva di chiesa. Lei si mette di lato alla signora e finge, appena arrivata ai gradini, di cadere, e cadde addosso alla signora con tale impeto da farle prendere un grosso spavento, e tutte e due strillarono molto forte. Nel preciso momento in cui lei urtava la signora, io afferrai l’orologio e lo tenni nel modo giusto, sicché la spinta che lei dette fece uscire il gancio, e quella non s’accorse di niente. Io me la battei immediatamente, e lasciai la mia maestra a riprendersi a poco a poco dal suo finto spavento, e anche la signora; e subito fu notata la scomparsa dell’orologio. “Ah,” dice la mia compagna, “allora sono stati quei cialtroni che mi hanno dato la spinta, ci giurerei; peccato che questa signora non si sia accorta prima che le mancava l’orologio, potevamo prenderli.”

Seppe girarla così bene, con tanta presenza di spirito, che nessuno sospettò di lei, e io arrivai a casa un’ora buona prima di lei. Quello fu il mio primo lavoro in società. L’orologio era davvero molto bello, era ornato di una quantità di ciondoli, e la mia governante ce lo pagò venti sterline, delle quali io ebbi la metà. Ero così diventata una ladra completa, una dura al di là di ogni scrupolo di coscienza e di ogni vergogna, a un livello che devo ammettere non avrei mai creduto di poter toccare.

Così il diavolo, che per spingermi al male aveva incominciato servendosi di una insopportabile povertà, mi portò avanti fino a raggiungere livelli molto superiori alla media, anche quando i miei bisogni non furono più così grandi, né le mie prospettive di povertà così terribili; un piccolo filone di lavoro l’avevo ormai trovato, infatti, e siccome a tener l’ago non ero affatto un disastro, è probabile che, con qualche nuova conoscenza, sarei stata in grado di guadagnarmi abbastanza onestamente il pane.

Devo dire che, se quelle possibilità di lavoro mi si fossero presentate in principio, quando mi ero resa conto della miserevole situazione nella quale stavo per venirmi a trovare, e cioè se mi si fosse presentata allora la possibilità di guadagnarmi il pane lavorando, io non sarei mai caduta in quel brutto mestiere, né in mezzo ad una compagnia così cattiva come quella con la quale m’ero ormai imbarcata; ma la pratica m’aveva fatto diventar dura, e audace fino alla temerarietà; tanto più che, pur facendo io quel mestiere per tanto tempo, non mi avevano beccata mai; in poche parole, la mia nuova compagna di misfatti e io lavorammo per tanto tempo insieme, senza farci mai beccare, che non solo ci sentimmo sicurissime di noi, ma diventammo anche ricche, e arrivammo ad avere in mano nostra in una sola volta ventuno orologi d’oro.

Ricordo che un giorno in cui ero un po’ più riflessiva del solito, e mi resi conto d’avere a portata di mano un così discreto peculio, dato che la mia parte erano duecento sterline in contanti, mi venne fatto improvvisamente di pensare, senza dubbio grazie ad una buona ispirazione, che in principio era stata la povertà a spingermi, e che erano state le mie sventure a condurmi a così spaventevoli passi; ma, visto che quelle sventure erano ormai passate, che potevo anche procurarmi più o meno i mezzi di sussistenza lavorando, e che avevo un discreto capitale per mantenermi, perché dunque non mi ritiravo, come si dice, finché mi andava bene? Non potevo aspettarmi che m’andasse sempre liscia; e se una volta mi beccavano, e facevo fiasco, ero perduta.

Quello fu indubbiamente l’attimo felice in cui, se avessi dato ascolto alla benedetta ispirazione, da qualunque parte venisse, avrei avuto ancora la strada aperta per una esistenza tranquilla. Ma la mia sorte era altrimenti decisa; il diavolo infaticabile che così abilmente mi guidava mi teneva troppo stretta per lasciarmi tornare indietro; e come la povertà mi aveva condotta nel fango, così la cupidigia mi ci tenne, finché non vi fu più modo di tornare indietro. E quanto agli argomenti che la mia ragione portava per convincermi a smettere, si fece avanti la mia cupidigia e disse: “Vai avanti, vai avanti; hai tanta fortuna; vai avanti finché avrai quattro o cinquecento sterline, e allora sì che potrai ritirarti, e viver bene senza dover lavorare più.”

A questo modo io, dopo essere stata nelle grinfie del demonio, mi trovai prigioniera di una specie d’incantesimo, e non ebbi la forza di uscire da quel cerchio, finché m’ingolfai in un labirinto di guai troppo grossi per venirne fuori.

Quei pensieri mi fecero comunque una certa impressione e m’indussero ad agire con più cautela di prima, più di quanta i miei maestri usavano per se stessi. La mia compagna, così la chiamavo mentre avrei dovuto senza dubbio chiamarla maestra, fu la prima ad avere sfortuna, insieme con un’altra delle sue allieve; un giorno, infatti, che erano in giro a caccia di bottino, fecero un tentativo con un mercante di lini di Cheapside, ma furono pizzicate da un commesso dall’occhio di lince, e prese con due pezze di batista che trovaron loro addosso.

Fu abbastanza per ficcarle tutte e due a Newgate, dove ebbero la sfortuna di veder ricordati alcuni peccati da loro commessi in precedenza. Furono portate contro di loro altre due accuse e, poiché i fatti risultarono provati a loro danno, furono tutte e due condannate a morte. Fecero tutte e due il ricorso di gravidanza, e tutte e due furono dichiarate incinte; anche se la mia maestra non era più incinta di quanto lo fossi io.

Andai spesso a trovarle e a rammaricarmi con loro, aspettandomi che la prossima volta sarebbe toccata a me; ma quel luogo mi faceva un tale orrore, poiché riflettevo che era il luogo della mia infelice nascita e delle sventure di mia madre, che non potevo sopportarlo, e fui perciò costretta a smettere di andarle a trovare.

Fossi almeno stata capace di ricavare un monito dalla loro disgrazia, avrei potuto dirmi fortunata, perché ancora ero in libertà, e ancora non c’era nulla contro di me; ma non fu possibile, la misura non era ancora colma.

La mia compagna, che era nota come vecchia delinquente, fu impiccata; la delinquente più giovane ebbe salva la vita, grazie a un rinvio che ottenne, ma restò a lungo a crepar di fame in prigione, finché il suo nome fu incluso in quel che si chiama un atto d’amnistia, e così venne fuori.

L’esempio tremendo della mia compagna mi spaventò a morte, e per qualche tempo non feci sortite; ma una sera, nel vicinato della mia governante, gridarono “Al fuoco”. La mia governante s’affacciò a guardare, perché eravamo tutti ancora alzati, e gridò subito che la casa della tal signora bruciava dal tetto, ed era davvero così. A questo punto mi dà una gomitata. “Senti, piccola,” dice, “ecco un’occasione rara, il fuoco è così vicino che tu puoi arrivarci prima che la strada sia bloccata dalla folla.”, Mi dette subito lei l’imbeccata. “Vai a quella casa, piccola,” dice, “corri dentro e di’ che sei venuta per aiutarli, mandata dalla tal signora (una donna, cioè, di sua conoscenza che abitava nella stessa strada più in là).” Così mi dette l’imbeccata per quella casa, dicendomi anche il nome di una signora che era amica della padrona.

Io corsi, e, giunta a quella casa, li trovai tutti in grande agitazione, come vi potete immaginare. Entrai e, trovando una delle cameriere, “Cielo, tesoro mio,” dico, “come è successo questo brutto guaio? E la tua padrona dov’è? E come sta? È salva? E dove sono i bambini? Io vengo da parte della signora… per aiutarvi.”

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