Moll Flanders (Collins Classics) (68 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Il venerdì mi portarono al processo. Avevo speso tutte le mie energie per piangere, in quei due o tre giorni, e così, la notte del giovedì, dormii meglio di quel che avrei creduto, e mi ritrovai, per il processo, più coraggio di quanto era verosimile avessi.

Quando il processo incominciò, letta l’accusa, io avrei voluto parlare, ma mi dissero che prima bisognava ascoltare i testimoni, avrei avuto tutto il tempo per farmi sentire. Testimoni erano le due ragazze, davvero una bella coppia di lingue lunghe, perché, per quanto la cosa già volgesse al peggio, riuscirono ad aggravarla ancora, al massimo, e giurarono che io avevo completamente in mio possesso la roba, me l’ero nascosta sotto il vestito, me la stavo portando via, avevo già un piede sulla soglia quando loro mi avevano pescata, e allora avevo messo avanti l’altro piede, sicché ero già completamente uscita di casa con la roba, in strada, prima che loro mi raggiungessero, afferrandomi, ributtandomi indietro, e trovandomi la roba indosso. Il fatto, in linea di massima, era tutto vero, ma io sostenevo, e su quel punto insistetti, di essere stata pescata prima di riuscire a mettere piede oltre la soglia di casa. Questo però non faceva gran differenza, perché non c’erano dubbi che la roba l’avevo presa, e che me la sarei portata via se non m’avessero pescata.

Ma io dichiarai che non avevo rubato niente, che loro non avevano perso niente, la porta era aperta, io ero entrata per vedere la roba che c’era, con l’intenzione di comprare. Se, vedendo che in casa non c’era nessuno, avevo preso in mano una cosa, non si poteva concludere che volevo rubarla, perché me l’ero soltanto portata fin sulla porta, per guardarla alla luce.

Questa la corte non me la fece buona, e a momenti mi prendevano anche in giro per quell’idea di voler comprare la roba, dato che quella non era affatto una bottega dove ci fosse roba in vendita; dell’idea che mi fossi portata la roba sulla soglia per guardarla bene, le cameriere si fecero allegramente beffa, e tirarono fuori tutto il loro spirito; dissero alla corte che io dovevo averla guardata abbastanza bene, la roba, e doveva anche essermi piuttosto piaciuta, se me l’ero messa sotto il vestito e me la stavo portando via.

Insomma, fui dichiarata colpevole di furto aggravato, ma assolta dall’accusa di scasso, il che era per me una ben modesta consolazione, visto che la prima cosa bastava a procurarmi la condanna a morte, e la seconda non poteva far di più. Il giorno dopo mi portarono giù a udire la sentenza terribile, e quando mi domandarono se avevo da dire qualcosa per oppormi alla esecuzione della sentenza, io restai muta per un po’, ma qualcuno che mi stava dietro mi incitò a parlare ai giudici, per far loro vedere la cosa in maniera più favorevole per me. Questo mi incoraggiò a parlare, e dissi allora che per oppormi alla sentenza non avevo nulla da dire, ma molto avevo da dire per impetrare la clemenza della corte; speravo che in un caso simile volessero tener conto delle circostanze; non avevo scassinato porte, non avevo portato via nulla; nessuno ci aveva rimesso niente; il tizio che era il padrone della roba si era compiaciuto di chiedere che mi si usasse clemenza (cosa che aveva fatto davvero, molto onestamente); nella peggiore delle ipotesi, era la prima volta, non ero mai stata prima in tribunale; in poche parole, parlai con più coraggio di quel che pensavo avrei avuto, e in tono così commovente, e piangendo, ma senza che le lacrime mi impedissero di parlare, tanto che vidi mettersi a piangere anche altri che mi sentivano.

I giudici rimasero seduti seri e silenziosi, mi ascoltarono tranquillamente, dandomi tutto il tempo di dire tutto quel che volevo, ma, senza rispondere né sì né no, pronunciarono contro di me la condanna a morte, condanna che era per me come la morte stessa, e, alla sola lettura, mi annientò. Non mi sentivo più fiato in corpo, non ebbi più lingua per parlare, né occhi da alzare verso Dio, né verso gli uomini.

La mia povera governante era terribilmente disperata, e se, fino a quel momento, m’aveva fatto coraggio, adesso aveva bisogno di chi facesse coraggio a lei; e, ora in lacrime e ora in smanie, era proprio fuori di sé, o almeno pareva, come una pazza del manicomio di Bedlam. E non era soltanto disperata per me, era anche piena di orrore all’idea della sua esistenza corrotta, incominciava a pensare al passato con un atteggiamento completamente diverso dal mio, era diventata penitente al massimo per i peccati suoi, oltre che dolente per la cattiva sorte mia. Chiamò anche un prete, un brav’uomo serio e pio, e col suo aiuto si dedicò con tale zelo all’opera di pentirsi sinceramente, che, secondo me, e anche secondo il prete, davvero si mise in penitenza; e, quel ch’è più, non lo fece soltanto per l’occasione, in quella circostanza, ma tale si conservò, come seppi, fino al giorno in cui morì.

È più facile immaginare che descrivere in quale situazione adesso mi trovavo. Davanti a me non c’era che la morte imminente; e poiché non avevo amici che mi assistessero, né che si dessero da fare per me, non avevo altro da aspettarmi che di trovare il mio nome sull’ordine di morte, che doveva arrivare il venerdì seguente per l’esecuzione mia e di altri cinque.

Nel frattempo, la mia povera e sconvolta governante chiamò per me un prete, il quale, su richiesta prima sua e poi anche mia, venne a visitarmi. Costui mi esortò solennemente a pentirmi di tutti i miei peccati, e a non scherzare più con la mia anima; a non illudermi con la speranza di aver salva la vita, che era una cosa, disse, da non pensarci nemmeno, bensì a rivolgermi senza riserve e con tutta l’anima a Dio e ad impetrare il perdono nel nome di Gesù. Documentò il suo discorso con acconce citazioni della Scrittura, incitando la grande peccatrice a pentirsi e ad abbandonare la strada del male, e poi si inginocchiò a pregare con me.

Fu allora che, per la prima volta, provai un senso vero di pentimento. Incominciavo adesso a considerare la mia vita passata con ripugnanza, e poiché era come se potessi già gettare uno sguardo sull’altra sponda dell’esistenza, le cose della vita, come credo che a chiunque accada in quel momento, incominciarono ad apparirmi sotto diversa luce, e in modo affatto differente da prima. Le cose più grandi e più belle, le prospettive di felicità e di gioia, i dolori della vita, erano ormai altrove; e non avevo in mente altro se non ciò che era tanto al di sopra di tutto quel che in vita avevo conosciuto, al punto che la più grossa stupidaggine di natura mi appariva il dar comunque peso ad una cosa, fosse pur stata cosa del massimo valore in questo mondo.

La parola eternità mi si presentava con tutte le sue incomprensibili implicazioni, e io ne avevo una consapevolezza così vasta che non saprei come riferirla. Fra l’altro, come appariva vile, grossolana, assurda, ogni cosa piacevole! — voglio dire ogni cosa che un tempo avevamo ritenuto piacevole — specialmente se riflettevo che proprio in cambio di così sciagurate miserie ci giocavamo la felicità eterna.

Vennero con tali pensieri, naturalmente, anche i rimorsi dell’animo mio per la sciagurata condotta della mia vita trascorsa; m’ero giocata ogni speranza di felicità per l’eternità dove stavo per entrare, e, al contrario, m’ero guadagnata il massimo della sventura, la sventura assoluta per se stessa; e con l’implicazione spaventosa, per di più, che si trattava di questo per l’eternità.

Io non sono in grado di dare lezioni di moralità a nessuno, ma riferisco di ciò meglio che so, così come fu per me, pur senza saper rendere nemmeno lontanamente l’idea dell’effetto che ebbe in quel momento sull’animo mio; in verità, si tratta di un effetto che non vi sono parole adatte a dire, o, se vi sono, io non sono tanto padrona delle parole da saperlo esprimere. Sarà compito del bravo lettore fare quelle riflessioni che la sua situazione gli suggerisce; ed è senza dubbio una cosa che prima o poi può capitare a chiunque: veder molto bene, voglio dire, quel che sarà, meglio di quel che è stato, e veder molto male il modo in cui finora ce ne siamo occupati.

Ma torniamo al caso mio. Il prete volle che gli dicessi, nella misura in cui lo giudicavo opportuno, qual era la mia posizione di fronte alla prospettiva delle cose al di là di questa vita. Mi disse che non veniva da me come il cappellano di quel luogo, il cui mestiere è strappar confessioni ai carcerati, per scopi personali o per far scoprire altri delinquenti; mestiere suo era invece condurmi ad una libertà di espressione tale che mi servisse a sgravarmi la coscienza, e consentisse a lui di darmi ogni conforto in suo potere; e mi assicurò che, qualunque cosa avrei detto, se la sarebbe tenuta per sé, sarebbe rimasta segreta come se l’avessimo saputa soltanto Dio e io stessa; non ci teneva a saper niente di me, ma, come ho già detto, lo chiedeva solo per essere in grado di darmi consiglio e assistenza per il meglio, e pregare Dio per me.

Quel modo onesto e amichevole di trattarmi fu la chiave che aprì tutte le chiuse dei miei sentimenti. Con ciò lui mi toccò il cuore; e io dipanai per lui tutta la corruzione della mia vita. In poche parole, gli feci un riassunto di tutta questa storia; gli dipinsi, in piccolo, un quadretto di cinquant’anni della mia vita.

Non gli nascosi nulla, e lui, a sua volta, mi esortò al pentimento sincero, spiegando che cosa intendeva per pentimento, e poi mi fece un tal quadro della infinita misericordia destinata dal Cielo ai peccatori della massima misura, da non lasciarmi modo di pronunciare più una sola parola di disperazione o di dubbio sulla possibilità di essere accolta anch’io; e in quello stato mi lasciò la prima sera.

Venne a trovarmi di nuovo la mattina dopo, e continuò col suo metodo spiegandomi le condizioni necessarie per ottenere la misericordia divina, che secondo lui consistevano soltanto e semplicemente nel desiderarla con assoluta sincerità e nell’essere disposti ad accettarla; nel rimorso sincero e nel disprezzo delle azioni da me compiute, che erano tali da fare di me il giusto bersaglio della vendetta divina. Io non sono capace di riferire tutto quel che diceva quell’uomo straordinario; quel che posso dire è che mi fece risvegliare il cuore, e mi mise in una condizione nella quale mai sapevo essermi trovata prima. Ero piena di vergogna e di lacrime per quel che era stato, eppure provavo al tempo stesso una gioia segreta e meravigliosa all’idea di essere una penitente vera, e di avere le consolazioni che toccano a chi fa penitenza — voglio dire, la speranza di ottenere il perdono; e così veloci mi giravano i pensieri per il capo, e così intensa era l’emozione che mi procuravano, che mi pareva di poter andare tranquillamente, da un attimo all’altro, al supplizio, senza provarne angoscia per nulla, ma interamente affidando l’anima mia di penitente nelle braccia della misericordia infinita.

Quel bravo signore si commosse tanto quando vide quale influsso quei pensieri avevano su di me, che ringraziò Dio di averlo mandato a farmi visita; e decise di non lasciarmi più fino all’ultimo momento, cioè decise di continuare a venirmi a far visita.

Dalla sentenza non passavano meno di dodici giorni prima che venissimo mandati al patibolo, e così, un mercoledì, l’ordine di morte; come si dice, arrivò, e io vidi che fra i nomi c’era il mio. Fu quello un colpo terribile per le mie recenti risoluzioni; mi mancò il cuore in petto, e svenni due volte, una dopo l’altra, senza dire una parola. Il bravo prete era molto addolorato per me, fece quel che poté per consolarmi con gli stessi ragionamenti e con la stessa commovente eloquenza della quale aveva già fatto uso in precedenza, e quella sera non mi lasciò prima che fosse giunta l’ora fino alla quale i carcerieri gli permettevano di stare con me, a meno che gli andasse di passare dentro con me la notte, cosa che lui però non volle.

Mi meravigliai molto di non vederlo per tutto il giorno seguente, perché era proprio la vigilia del giorno fissato per l’esecuzione; e ne fui grandemente scoraggiata e avvilita nell’animo, quasi mi sentii mancare al bisogno del conforto che mi aveva dato così spesso, e con tanta efficacia, nelle sue visite precedenti. Aspettai con grande impazienza e con animo angosciato, come si può immaginare, finché, verso le quattro, lui venne al mio appartamento; avevo infatti ottenuto il permesso, naturalmente pagando, perché senza soldi in quel posto non c’era niente da fare, di non rimanere nell’antro dei condannati a morte, con gli altri carcerati che dovevano morire, ma di avere tutta per me una cella piccola e sporca.

Il cuore mi balzò in petto per la gioia quando, prima ancora di vederlo, sentii alla porta la sua voce; ma si pensi che emozione provò l’animo mio quando lui, dopo essersi brevemente scusato per non essere venuto prima, mi dimostrò che quel tempo l’aveva usato a mio vantaggio; aveva ottenuto un rapporto favorevole sul caso mio dall’ufficio del segretario di Stato, e, insomma, mi portava una proroga.

Usò ogni precauzione di cui era capace nel comunicarmi una notizia che sarebbe stata una doppia crudeltà tenermi celata; e tuttavia per me fu troppo; come mi aveva prima sconvolta il dolore, adesso mi sconvolse la gioia, e io fui colta da uno svenimento molto più grave di quelli di prima, e non ci volle poco perché riuscissi a riprendermi.

Il brav’uomo, dopo avermi rivolto un’esortazione assai cristiana, affinché la gioia per la proroga non mi facesse uscire di mente il ricordo del dolore passato, e dopo avermi detto che doveva lasciarmi, per andare a far registrare sui libri la proroga, e farla notificare agli sceriffi, si fermò in piedi, prima di andarsene, e solennemente pregò Dio per me, che il mio pentimento fosse indubbio e sincero; e che il mio, per così dire, ritorno alla vita non fosse anche un ritorno a quelle follie delle quali io m’ero tanto solennemente risolta a far atto di ripulsa e contrizione. Io mi associai di tutto cuore a quella richiesta, e non fa bisogno dire che per tutta la notte restai nel fondo dell’animo mio profondamente impressionata dalla misericordia di Dio che mi salvava la vita, e provai, grazie alla bontà nella quale m’ero imbattuta, disgusto per i miei trascorsi peccati, più di quanto avessi provato mai nel momento del dolore.

Questo può sembrare poco convincente, e fuori tema per questo libro; in particolare, mi rendo conto che a molti di coloro che, magari, si sono compiaciuti e divertiti al racconto della parte cattiva e sciagurata della storia, potrà non piacere questa parte, che in realtà è la parte migliore della mia vita, la più utile per me, la più istruttiva per gli altri. Vorranno tuttavia consentirmi, spero, di raccontar completa la mia storia. Si potrebbe altrimenti far della satira aspra nei loro confronti, dire che il pentimento li diverte meno del delitto, e dire che avrebbero preferito che la storia fosse una tragedia assoluta, come del resto mancò poco che fosse.

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