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Authors: Dante

Paradiso (53 page)

               
Questo io a lui; ed elli a me: “S’io posso   

               
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi

96
           
terrai lo viso come tien lo dosso.

               
Lo ben che tutto il regno che tu scandi   

   

               
volge e contenta, fa esser virtute

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sua provedenza in questi corpi grandi.

               
E non pur le nature provedute   

               
sono in la mente ch’è da sé perfetta,

102
         
ma esse insieme con la lor salute:

               
per che quantunque quest’ arco saetta   

               
disposto cade a proveduto fine,

105
         
sì come cosa in suo segno diretta.

               
Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine   

               
producerebbe sì li suoi effetti,

108
         
che non sarebbero arti, ma ruine;

               
e ciò esser non può, se li ’ntelletti   

               
che muovon queste stelle non son manchi,

111
         
e manco il primo, che non li ha perfetti.

               
Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?”   

               
E io “Non già; ché impossibil veggio

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che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi.”

               
Ond’ elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio   

               
per l’omo in terra, se non fosse cive?”

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“Sì” rispuos’ io; “e qui ragion non cheggio.”

               
“E puot’ elli esser, se giù non si vive   

               
diversamente per diversi offici?

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Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive.”

               
Sì venne deducendo infino a quici;   

               
poscia conchiuse: “Dunque esser diverse   

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convien di vostri effetti le radici:

               
per ch’un nasce Solone e altro Serse,

               
altro Melchisedèch e altro quello

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che, volando per l’aere, il figlio perse.

               
La circular natura, ch’è suggello   

   

               
a la cera mortal, fa ben sua arte,

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ma non distingue l’un da l’altro ostello.

               
Quinci addivien ch’Esaù si diparte   

               
per seme da Iacòb; e vien Quirino

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da sì vil padre, che si rende a Marte.

               
Natura generata il suo cammino   

               
simil farebbe sempre a’ generanti,

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se non vincesse il proveder divino.

               
Or quel che t’era dietro t’è davanti:   

               
ma perché sappi che di te mi giova,

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un corollario voglio che t’ammanti.   

               
Sempre natura, se fortuna trova   

               
discorde a sé, com’ ogne altra semente

141
         
fuor di sua regïon, fa mala prova.

               
E se ’l mondo là giù ponesse mente   

               
al fondamento che natura pone,

144
         
seguendo lui, avria buona la gente.

               
Ma voi torcete a la religïone   

               
tal che fia nato a cignersi la spada,

               
e fate re di tal ch’è da sermone;

148
         
onde la traccia vostra è fuor di strada.”

PARADISO IX

               
Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,   

               
m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni

3
             
che ricever dovea la sua semenza;

               
ma disse: “Taci e lascia muover li anni”;

               
sì ch’io non posso dir se non che pianto

6
             
giusto verrà di retro ai vostri danni.

               
E già la vita di quel lume santo   

               
rivolta s’era al Sol che la rïempie   

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come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.

               
Ahi anime ingannate e fatture empie,   

               
che da sì fatto ben torcete i cuori,

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drizzando in vanità le vostre tempie!   

               
Ed ecco un altro di quelli splendori   

               
ver’ me si fece, e ’l suo voler piacermi   

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significava nel chiarir di fori.

               
Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi

               
sovra me, come pria, di caro assenso

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al mio disio certificato fermi.   

               
“Deh, metti al mio voler tosto compenso,   

               
beato spirto,” dissi, “e fammi prova

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ch’i’ possa in te refletter quel chi’io penso!”   

               
Onde la luce che m’era ancor nova,

               
del suo profondo, ond’ ella pria cantava,   

24
           
seguette come a cui di ben far giova:

               
“In quella parte de la terra prava   

   

               
italica che siede tra Rïalto

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e le fontane di Brenta e di Piava,

               
si leva un colle, e non surge molt’ alto,

               
là onde scese già una facella   

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che fece a la contrada un grande assalto.

               
D’una radice nacqui e io ed ella:   

   

               
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo

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perché mi vinse il lume d’esta stella;

               
ma lietamente a me medesma indulgo   

               
la cagion di mia sorte, e non mi noia;

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che parria forse forte al vostro vulgo.

               
Di questa luculenta e cara gioia   

               
del nostro cielo che più m’è propinqua,   

39
           
grande fama rimase; e pria che moia,

               
questo centesimo anno ancor s’incinqua:   

               
vedi se far si dee l’omo eccellente,   

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sì ch’altra vita la prima relinqua.

               
E ciò non pensa la turba presente   

               
che Tagliamento e Adice richiude,

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né per esser battuta ancor si pente;

               
ma tosto fia che Padova al palude   

               
cangerà l’acqua che Vincenza bagna,

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per essere al dover le genti crude;

               
e dove Sile e Cagnan s’accompagna,   

               
tal signoreggia e va con la testa alta,

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che già per lui carpir si fa la ragna.

               
Piangerà Feltro ancora la difalta   

               
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia

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sì, che per simil non s’entrò in malta.   

               
Troppo sarebbe larga la bigoncia

               
che ricevesse il sangue ferrarese,

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e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia,

               
che donerà questo prete cortese

               
per mostrarsi di parte; e cotai doni

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conformi fieno al viver del paese.

               
Sù sono specchi, voi dicete Troni,   

               
onde refulge a noi Dio giudicante;

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sì che questi parlar ne paion buoni.”   

               
Qui si tacette; e fecemi sembiante   

               
che fosse ad altro volta, per la rota

66
           
in che si mise com’ era davante.

               
L’altra letizia, che m’era già nota   

               
per cara cosa, mi si fece in vista

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qual fin balasso in che lo sol percuota.   

               
Per letiziar là sù fulgor s’acquista,   

               
sì come riso qui; ma giù s’abbuia

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l’ombra di fuor, come la mente è trista.

               
“Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia,”   

               
diss’ io, “beato spirto, sì che nulla

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voglia di sé a te puot’ esser fuia.

               
Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla

               
sempre col canto di quei fuochi pii   

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che di sei ali facen la coculla,

               
perché non satisface a’ miei disii?

               
Già non attendere’ io tua dimanda,

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s’io m’intuassi, come tu t’inmii.”

               
“La maggior valle in che l’acqua si spanda,”   

               
incominciaro allor le sue parole,

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“fuor di quel mar che la terra inghirlanda,

               
tra ’ discordanti liti contra ’l sole   

               
tanto sen va, che fa meridïano

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là dove l’orizzonte pria far suole.

               
Di quella valle fu’ io litorano

               
tra Ebro e Macra, che per cammin corto

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parte lo Genovese dal Toscano.

               
Ad un occaso quasi e ad un orto

               
Buggea siede e la terra ond’ io fui,

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che fé del sangue suo già caldo il porto.   

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