In Other Words (43 page)

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Authors: Jhumpa Lahiri

Leggo in italiano ogni giorno, ma non scrivo. In America divento passiva. Anche se ho portato i dizionari, i quaderni e i taccuini, non riesco a scrivere neanche una parola in italiano. Non descrivo nulla nel diario, non me la sento. Per quanto riguarda la scrittura, rimango inattiva. Come se mi ritrovassi in una sala d'attesa creativa, non faccio altro che aspettare.

Finalmente, a fine agosto, all'aeroporto, all'imbarco, sono circondata di nuovo dall'italiano. Vedo tutti gli italiani che stanno per tornare al loro Paese dopo le vacanze a New
York. Sento le loro chiacchiere. All'inizio provo sollievo, gioia. Subito dopo mi accorgo di non essere come loro. Sono diversa, così come ero diversa dai miei genitori quando andavamo in vacanza dagli Stati Uniti a Calcutta. Non torno a Roma per raggiungere la mia lingua. Torno per continuare a corteggiarne un'altra.

Chi non appartiene a nessun posto specifico non può tornare, in realtà, da nessuna parte. I concetti di esilio e di ritorno implicano un punto di origine, una patria. Senza una patria e senza una vera lingua madre, io vago per il mondo, anche dalla mia scrivania. Alla fine mi accorgo che non è stato un vero esilio, tutt'altro. Sono esiliata perfino dalla definizione di esilio.

IL MURO

C
'è una trafittura in ogni gioia. In ogni passione folgorante, un lato cupo.

Il secondo anno a Roma, dopo Natale, vado con la mia famiglia a vedere Paestum, e poi ci fermiamo, per un paio di giorni, a Salerno. Lì, nel centro storico, nella vetrina di un negozietto, mi capita di vedere dei vestiti carini per i bambini. Entro con mia figlia. Mi rivolgo alla commessa. La saluto e le dico che sto cercando dei pantaloni per mia figlia. Descrivo quello che ho in mente, suggerisco dei colori che andrebbero bene, aggiungo che a mia figlia non piacciono i modelli troppo stretti, che preferirebbe qualcosa di comodo. Insomma, parlo abbastanza a lungo con questa commessa, in un italiano ormai scorrevole ma non del tutto autentico.

A un certo punto entra mio marito con nostro figlio. A differenza di me, mio marito, un americano, dall'aspetto potrebbe sembrare un italiano. Lui e io scambiamo qualche parola, sempre in italiano, davanti alla commessa. Gli faccio vedere un giubbotto scontato, che sto considerando per nostro figlio. Lui risponde a monosillabi: va bene, mi piace, sì, vediamo. Nemmeno una frase intera. Mio marito parla lo spagnolo alla perfezione, quindi tende a parlare l'italiano con
un accento spagnolo. Dice
sessenta y uno
invece di
sessantuno, bellessa
invece di
bellezza, nunca
invece di
mai,
per cui i nostri figli lo prendono in giro. Parla bene l'italiano, mio marito, ma non lo parla meglio di me.

Decidiamo di comprare due paia di pantaloni più il giubbotto. Alla cassa, mentre sto pagando, la commessa mi chiede: «Da dove venite?»

Le spiego che abitiamo a Roma, che ci siamo trasferiti in Italia lo scorso anno da New York. A quel punto la commessa dice: «Ma tuo marito deve essere italiano. Lui parla perfettamente, senza nessun accento».

Ecco il confine che non riuscirò mai a varcare. Il muro che rimarrà per sempre tra me e l'italiano, per quanto bene possa impararlo. Il mio aspetto fisico.

Mi viene da piangere. Vorrei urlare: «Sono io che amo perdutamente la vostra lingua, mio marito no. Lui parla italiano solo perché ne ha bisogno, perché gli capita di vivere qui. Sto studiando la vostra lingua da più di vent'anni, lui nemmeno da due. Non leggo altro che la vostra letteratura. Riesco ormai a parlare in italiano in pubblico, a fare interviste radiofoniche in diretta. Tengo un diario italiano, scrivo dei racconti».

Non dico niente alla commessa. La ringrazio, la saluto, poi esco. Capisco che il mio attaccamento all'italiano non vale niente. Che tutta la mia devozione, tutta la foga non significano nulla. Secondo questa commessa, mio marito sa parlare benissimo l'italiano, va lodato; io no. Mi sento umiliata, indignata, invidiosa. Sono senza parole. Dico finalmente a mio marito, in italiano, quando siamo per strada: «Sono sbalordita».

E mio marito mi chiede, in inglese: «Cosa vuol dire,
sbalordita
?»

L'episodio di Salerno è soltanto un esempio del muro che affronto ripetutamente in Italia. Per colpa del mio aspetto fisico, sono percepita come una straniera. È vero, lo sono. Ma essendo una straniera che parla bene l'italiano, ho due esperienze linguistiche, notevolmente diverse, in questo Paese.

Quelli che mi conoscono mi parlano in italiano. Loro apprezzano che io capisca la loro lingua, la condividono volentieri con me. Quando parlo in italiano con i miei amici italiani mi sento immersa nella lingua, accolta, accettata. Prendo parte alla lingua: nel teatro dell'italiano parlato credo di aver anch'io un ruolo, una presenza. Con gli amici riesco a discutere per ore, a volte per giorni, senza dover contare su nessuna parola inglese. Sono nel mezzo del lago e sto nuotando a modo mio con loro.

Ma quando vado in un negozio come quello di Salerno mi ritrovo, bruscamente, lanciata sulla sponda. Quelli che non mi conoscono, guardandomi, presuppongono che io non sappia parlare l'italiano. Quando mi rivolgo loro in italiano, quando chiedo qualcosa (una testa d'aglio, un francobollo, l'ora), dicono, perplessi: «Non ho capito». È sempre la stessa risposta, lo stesso cipiglio. Come se il mio italiano fosse un'altra lingua.

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