In Other Words (46 page)

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Authors: Jhumpa Lahiri

Non mi stupiscono, le loro reazioni. Una trasformazione, soprattutto se è voluta, cercata, è spesso percepita come qualcosa di sleale, di minaccioso. Sono figlia di una madre che non ha voluto mai cambiare se stessa. Continuava negli Stati Uniti, il più possibile, a vestirsi, comportarsi, mangiare, pensare, vivere come se non avesse mai lasciato l'India, Calcutta. Il rifiuto di modificare il suo aspetto, le sue abitudini, i suoi atteggiamenti, era la sua strategia per resistere alla cultura americana, soprattutto per combatterla, per mantenere la sua identità. Diventare o perfino somigliare a un'americana avrebbe significato una sconfitta totale. Quando torna a Calcutta, mia madre si sente orgogliosa perché, anche se ha passato quasi cinquant'anni lontano dall'India, sembra una che è sempre rimasta lì.

Io sono il contrario. Mentre il rifiuto di cambiare era la ribellione di mia madre, la voglia di trasformarmi è la mia. «C'era una donna … che voleva essere un'altra persona»: non è un caso che
Lo scambio,
il mio primo racconto in italiano, inizi con questa frase. Per tutta la vita ho provato ad allontanarmi dal vuoto della mia origine. Era il vuoto che mi sgomentava, da cui fuggivo. Ecco perché non ero mai soddisfatta di me. Alterare me stessa sembrava l'unica soluzione. Scrivendo, ho scoperto un modo di nascondermi nei miei personaggi, di eludermi. Di sottopormi a una mutazione dopo l'altra.

Si potrebbe dire che il meccanismo metamorfico sia l'unico elemento della vita che non cambia mai. Il percorso di
ogni individuo, di ogni Paese, di ogni epoca storica, dell'universo intero e tutto ciò che contiene, non è altro che una serie di mutamenti, a volte sottili, a volte profondi, senza i quali resteremmo fermi. I momenti di transizione, in cui qualcosa si tramuta, costituiscono la spina dorsale di tutti noi. Che siano una salvezza o una perdita, sono i momenti che tendiamo a ricordare. Danno un'ossatura alla nostra esistenza. Quasi tutto il resto è oblio.

Credo che il potere dell'arte sia il potere di svegliarci, di colpirci fino in fondo, di cambiarci. Cosa cerchiamo leggendo un romanzo, guardando un film, ascoltando un brano di musica? Cerchiamo qualcosa che ci sposti, di cui non eravamo consapevoli, prima. Vogliamo trasformarci, così come il capolavoro di Ovidio ha trasformato me.

Nel mondo animale una metamorfosi è qualcosa di previsto, di naturale. Vuol dire un passaggio biologico, fasi specifiche che conducono, alla fine, a uno sviluppo completo. Quando un bruco si è trasformato in farfalla non c'è più un bruco ma una farfalla. L'effetto della metamorfosi è radicale, permanente. Avendo perso la vecchia forma, ne assume una nuova, irriconoscibile. Rispetto alla creatura precedente ha nuovi tratti fisici, una nuova bellezza, nuove capacità.

Una metamorfosi totale non è possibile nel mio caso. Posso scrivere in italiano ma non posso diventare una scrittrice italiana. Nonostante io scriva questa frase in italiano, la parte di me condizionata a scrivere in inglese resta. Penso a Fernando Pessoa, che ha inventato quattro versioni di se stesso: quattro autori separati, distinti, grazie ai quali è riuscito a oltrepassare i confini di sé. Forse quello che sto facendo, tramite l'italiano, somiglia più alla sua tattica. Non
è possibile diventare un'altra scrittrice, ma forse sarebbe possibile esserne due.

Curiosamente, mi sento più protetta quando scrivo in italiano, anche se sono molto più esposta. È vero che una nuova lingua mi copre, ma a differenza di Dafne ho una protezione permeabile, mi trovo quasi senza pelle. Sebbene mi manchi una corteccia spessa, sono, in italiano, una scrittrice indurita, che cresce diversamente, radicata di nuovo.

SONDARE

T
ra il 1948 e il 1950, gli ultimi due anni della sua vita, Cesare Pavese, in quanto collaboratore della casa editrice Einaudi, scrive una serie di lettere a Rosa Calzecchi Onesti, ormai famosa per le sue innovative traduzioni dell'
Iliade
e dell'
Odissea
. Tramite una fitta e vivace corrispondenza fra Torino e Cesena, Pavese, che non conosce la traduttrice di persona, la spinge a rendere Omero in maniera fedele ma moderna in italiano, e a puntare a un linguaggio meno arcaico, più piano. Leggendo con scrupolo, confrontando meticolosamente la traduzione con il testo originale, esaminando tutto con cura, Pavese reagisce a ogni canto, ogni riga, ogni immagine, ogni parola. Le sue lettere sono zeppe di suggerimenti, ritocchi, opinioni. Interviene con schiettezza, ma sempre in modo rispettoso, cordiale. Tra le proposte in un lungo elenco: «Insisterei per
bellissima
invece di
eletta per bellezza
che dà un inutile tono ‘sublime'»; «Meglio che
uccisore d'uomini
mi pare
assassino
»; «
Del mare
che io faccio
marino
». Di tanto in tanto condivide pienamente una scelta di Calzecchi Onesti; per quanto riguarda il classico epiteto omerico,
il mare
colore del vino,
scrive: «Sono d'accordo per il mare cupo. Via il vino».

Pavese e Calzecchi Onesti fanno quello che fanno tutti gli scrittori al mondo, e chiunque si occupi di scrittura: cercano di trovare la parola giusta, di selezionare alla fine quella più azzeccata, ficcante. Si tratta di passare al setaccio, un processo estenuante, a volte esasperante. Chi scrive non può evitarlo. Il cuore del mestiere risiede qui.

Le lettere di Pavese svelano una conoscenza possente, intima della propria lingua. Come scrittrice miro a fare come lui, ma posso farlo solo in inglese. Non posso tuffarmi nell'italiano con la stessa profondità. Posso sperare di scrivere in modo corretto, optare per una parola alternativa. Ma non possiedo un vocabolario vissuto, stagionato fin dall'infanzia. Non posso scrutare l'italiano con la stessa precisione. Non posso valutare un testo italiano, nemmeno scritto da me, dalla stessa prospettiva.

Tuttavia, l'impulso di scovare la parola giusta resta irrefrenabile, per cui, perfino in italiano, ci provo. Controllo il dizionario dei sinonimi, sfoglio il taccuino. Infilo un nuovo vocabolo, appena letto la mattina sul giornale. Ma spesso i miei primi lettori scuotono la testa, dicendo semplicemente: «Non suona». Dicono che la parola che vorrei usare è considerata ormai datata, che appartiene a un registro o troppo basso o troppo raffinato, che suona o leziosa o troppo colloquiale (così ho imparato l'aggettivo
aulico
). Dicono che l'ordine delle parole non è autentico, che la punteggiatura non funziona. Non c'entra, necessariamente, la correttezza. Dicono che un italiano non si esprimerebbe così.

Devo ascoltare quei lettori, devo seguire il loro consiglio. Devo togliere la parola scorretta o sbagliata e cercarne un'altra. Non posso difendere la mia scelta: non si può contraddire un madrelingua. Devo accettare che in italiano sono parzialmente sorda e cieca, per cui temo di essere una scrittrice spuria.

Ho ormai un vocabolario ampio, ma rimane qualcosa di strampalato. Mi sento vestita in modo strambo, come se portassi una lunga gonna elegante di un'altra epoca, una maglietta sportiva, un cappello di paglia e un paio di ciabatte. Questo effetto sgraziato, questi toni scombinati potrebbero essere la conseguenza della distanza, fin dall'inizio, tra me e l'italiano: l'aver assorbito la lingua per anni da lontano, da varie fonti, prima di aver vissuto in Italia. Per due anni sono riuscita a imparare la lingua in modo agevole, quotidianamente. Ma ora che leggo in italiano, il mio lessico è anche plasmato da un amalgama di scrittori di varie epoche storiche che scrivono in diversi stili. Sui miei taccuini elenco le parole di Manganelli, Verga, Elena Ferrante, Leopardi, senza fare alcuna distinzione. Diceva Beckett che scrivere in francese gli permetteva di scrivere senza stile. Da un lato sono d'accordo: si potrebbe dire che la mia scrittura in italiano sia una specie di pane sciapo. Funziona, ma il solito sapore non c'è.

Dall'altro lato, credo che ci sia uno stile, almeno un carattere. La lingua mi sembra una cascata. Non mi serve ogni goccia, eppure continuo ad avere sete. Sospetto, dunque, che il problema non sia la mancanza di stile ma forse una sovrabbondanza dalla quale mi sento ancora travolta. Ciò che mi manca in italiano è una vista acuta, per cui non riesco a limare uno stile specifico. Per di più non riesco a coglierlo.
Se mi capita di formulare una bella frase in italiano, non riesco a capire esattamente perché è bella.

Resto, in italiano, una scrittrice inconsapevole, consapevole solo di essere camuffata. In realtà mi sento una bambina che si intrufola nell'armadio della madre per mettersi le scarpe coi tacchi, un vestito da sera, gioielli preziosi, una pelliccia.
Temo di essere colta sul fatto, di essere rimproverata, rimandata in camera mia. «Devi aspettare» direbbe mia madre. «Questa roba è troppo grande per te.» Ha ragione lei. Non riesco a camminare con disinvoltura nelle sue scarpe. La collana mi pesa, inciampo nell'orlo del vestito. Dentro la pelliccia, per quanto sia elegante, sudo.

Come la marea il mio lessico s'innalza e si abbassa, viene e se ne va. Le parole aggiunte ogni giorno sul taccuino sono labili. Impiego un'ora per scegliere quella giusta, ma poi, spesso, la dimentico. Ormai quando incontro una parola sconosciuta in italiano conosco già un paio di termini, sempre in italiano, per esprimere la stessa cosa. Per esempio, di recente ho imparato
accantonare,
conoscendo già
rinviare
e
sospendere
. Ho scoperto
travalicare,
conoscendo già
oltrepassare
e
superare
. Ho sottolineato
tracotante,
conoscendo già
arrogante
e
prepotente
. Poco tempo fa ho acquisito
azzeccato
e
ficcante;
prima avrei usato
adatto, appropriato
.

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