Moll Flanders (Collins Classics) (18 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

“Signora,

“sono stupito che la mia lettera, in data 8 dello scorso mese, non sia pervenuta in vostra mano. Posso darvi la mia parola che venne consegnata presso la vostra abitazione, nelle mani della vostra cameriera.

“Non vi è bisogno che io vi ragguagli intorno a quella che è stata la mia condizione fino a qualche tempo fa; né del come, essendomi trovato sull’orlo della tomba, io mi sia, per grazia inattesa e immeritata del Cielo, tornato a ristabilire. Nella condizione in cui mi sono trovato, non vi parrà strano che il nostro infelice rapporto non sia stato il minore dei pesi che gravavano sulla mia coscienza. Non v’è bisogno che io dica di più: le cose delle quali ci si deve pentire vanno anche cambiate.

“Desidero che voi pensiate a ritornare a Bath. Accludo qui una polizza di cinquanta sterline perché possiate regolare tutto alla vostra abitazione e fare il viaggio, e spero che non vi stupirete se aggiungo che, per quel solo motivo, e non per torto alcuno che mi sia stato fatto da parte vostra, io non potrò vedervi mai più. Avrò la debita cura del bambino; lasciatelo dov’è, o prendetelo con voi, come volete; vi auguro di fare analoghe riflessioni, e che vi possano recare giovamento. Sono,” eccetera.

Fui colpita da quella lettera come da mille ferite, in un modo che non so descrivere; tali erano i rimorsi della mia coscienza che non so ridirli, perché non ero cieca di fronte alla mia colpa; e riflettevo che sarebbe stato minor torto restare con mio fratello e viver con lui da moglie, poiché da quel punto di vista non era stato un delitto il nostro matrimonio, quando nessuno dei due ne sapeva nulla.

Ma nemmeno una volta riflettevo che durante tutto quel tempo io ero stata comunque una donna maritata, la moglie del signor…, la moglie del mercante di tessuti che, anche se mi aveva abbandonato perché costrettovi dalla sua situazione, non aveva alcuna possibilità di sciogliermi dal contratto matrimoniale che esisteva fra noi né di darmi legalmente libertà di rimaritarmi; cosicché per tutto quel tempo io non ero stata altro che una puttana e un’adultera. Io mi facevo poi colpa delle libertà che mi ero presa, e del fatto che ero stata un trabocchetto per quel gentiluomo, ed era mia la responsabilità maggiore del misfatto; lui aveva ora avuto la grazia di strapparsi al gorgo con uno sforzo risoluto della mente, ma io v’ero rimasta, come privata della grazia di Dio, abbandonata dal Cielo a perseverare nel vizio.

In tali riflessioni rimasi pensierosa e triste per quasi un mese, e non andai a Bath, perché non avevo voglia di tornare a stare dalla donna dov’ero stata prima; temevo che potesse spingermi di nuovo verso un tipo corrotto di vita, come già aveva fatto; e, inoltre, mi dava gran noia che venisse a sapere che io ero stata piantata come ho detto.

Ero anche vivamente preoccupata per il mio ragazzo. Mi sentivo morire all’idea di separarmi dal bambino, e tuttavia, dopo aver riflettuto al rischio di poter restare una volta o l’altra con quello da mantenere senza averne i mezzi, decisi alla fine di lasciarlo dov’era; ma conclusi, poi, che era meglio restare anch’io vicino a lui, in modo da avere la soddisfazione di vederlo, senza dover pensare a mantenerlo.

Mandai perciò al mio signore una breve lettera dicendogli che avevo obbedito ai suoi ordini in tutto, meno che per il ritorno a Bath, che non potevo accettare per diverse ragioni; separarmi da lui era comunque per me una ferita dalla quale non mi sarei ripresa più, anche se ero assolutamente convinta che le sue riflessioni erano giuste, e per nulla al mondo avrei voluto essere d’ostacolo alla sua riabilitazione e al suo pentimento.

Poi gli dipinsi la mia situazione nei termini più commoventi che riuscii a trovare. Gli dissi che quell’infelice disordine, che un tempo lo aveva indotto a nutrire per me una generosa e sincera amicizia, speravo potesse indurlo a darsi qualche pensiero di me ora, poiché era ormai scomparso l’aspetto colpevole della nostra relazione, nella quale io ero certa che nessuno dei due intendeva ricadere; io desideravo pentirmi altrettanto sinceramente di quanto aveva fatto lui, ma lo supplicavo di pormi in una posizione tale da non essere esposta alle tentazioni che il diavolo non manca mai di proporci quando ci troviamo in miseria e difficoltà; se lui aveva il minimo timore che io potessi dargli fastidio, lo pregavo di mettermi in grado di ritornare da mia madre in Virginia, donde lui sapeva che ero arrivata, e questo avrebbe posto fine ad ogni sua paura in proposito. Conclusi che, se voleva inviarmi altre cinquanta sterline per facilitarmi la partenza, io gli avrei inviato in cambio una ricevuta totale e avrei promesso di non disturbarlo più con altre seccature; a meno che si trattasse del bene del bambino, che, se trovavo viva mia madre e le cose ben messe per me, lo avrei mandato a prendere, a costo di doverglielo portar via di mano.

Fin lì eran tutte cose dette per dire, perché io non avevo nessuna intenzione di andare in Virginia, come il racconto delle mie precedenti avventure laggiù basta a far capire a chiunque; ma il problema era ottener da lui, se era possibile, quelle ultime cinquanta sterline, perché sapevo fin troppo bene che dopo quello non avevo da aspettarmi più nemmeno un soldo.

Comunque, l’argomento di cui mi servii, di dargli cioè una ricevuta totale e di non seccarlo più, riuscì in effetti a convincerlo, e lui mi mandò una carta, per quella somma, a mezzo di una persona che mi portò da firmare una ricevuta totale, che io subito firmai, ed ebbi il denaro. Così, benché in modo dolorosamente contrario ai miei desideri, quella vicenda arrivò alla sua conclusione.

E a questo punto non posso fare a meno di riflettere sulle tristi conseguenze della eccessiva libertà di rapporti fra persone quali eravamo noi, e sulla finzione delle intenzioni innocenti, dell’amicizia amorosa, e via di questo passo; in quel genere d’amicizie, infatti, la carne ha di solito una tal parte che sarebbe da pazzi se alla fine il desiderio non avesse il sopravvento sulle decisioni più solenni; il vizio oltrepassa gli argini del pudore, che invece un’amicizia realmente innocente dovrebbe rispettare in modo rigoroso. Ma lascio ai lettori di questa storia il compito di far da soli le riflessioni del caso, che essi potranno fare assai più validamente di me, perché io che così presto mi scordai di me stessa non sono certo in grado di insegnar niente a nessuno.

Adesso ero di nuovo una donna sola, così posso ben dire. Avevo sciolto ogni legame al mondo sia di nozze sia di concubinaggio, tranne quello col marito mercante di tessuti, dal quale però, visto che non ne sapevo nulla da quasi quindici anni, nessuno può darmi torto se mi sentivo completamente libera; e mi rendevo conto, inoltre, che, siccome lui, andandosene, mi aveva detto che se non avevo spesso sue notizie potevo considerarlo morto, io ero libera di rimaritarmi con chi volevo.

Incominciai a occuparmi di sistemare gli affari miei. Per mezzo di molte lettere e di molte insistenze, e inoltre per l’intercessione di mia madre, riuscii ad ottenere da mio fratello (come ora lo chiamo) in Virginia un secondo invio di merci, per rimediare al danno del carico che avevo portato con me, e ottenni anche questo a condizione di firmare una ricevuta totale da fargli avere per mezzo del suo corrispondente di Bristol, cosa che, pur trovandola io un po’ dura, fui tuttavia costretta a promettere di fare. Tuttavia riuscii a manovrare così bene, a quel riguardo, che ebbi la merce prima di aver firmato la ricevuta, e poi trovai sempre una ragione o un’altra per sottrarmi all’impegno e non firmare affatto la ricevuta; finché, dopo qualche tempo, finsi di dover scrivere a mio fratello e aspettare la sua risposta, prima di poterlo fare.

Compreso quell’incasso, e prima di avere le ultime cinquanta sterline, trovai che la mia sostanza ammontava, tutta insieme, a circa quattrocento sterline, cosicché con quell’altro denaro venivo a possedere quattrocentocinquanta sterline. Avevo risparmiato altre cento sterline circa, ma mi capitò una disgrazia, e cioè che un gioielliere nelle cui mani le avevo affidate fallì, e così persi settanta sterline del mio denaro, perché il concordato di quel tale non arrivò a trenta delle cento sterline. Ebbi un po’ d’argenteria, ma non gran che, e fui fornita in abbondanza di vestiti e lino.

Con tali averi mi trovavo ad affrontare il mondo da capo; ma dovete considerare che non ero più la stessa donna di quando abitavo a Redriff; anzitutto, infatti, avevo quasi vent’anni di più, e né l’età, né le mie peripezie su e giù dalla Virginia, avevano giovato al mio aspetto; e benché io non tralasciassi nulla di quel che poteva farmi meglio apparire, meno che imbellettarmi perché a questo non mi adattai mai, e avevo la superbia di ritenere di non averne bisogno, pure una differenza c’è sempre tra i venticinque e i quarantadue.

Feci innumerevoli progetti per la mia esistenza futura, mi misi a considerare con la massima serietà che dovevo fare, ma non usciva nulla. Mi preoccupai di farmi credere da tutti più di quel che ero, sparsi la voce che ero molto ricca ed ero libera di disporre come volevo del mio patrimonio; di queste due cose, la seconda era vera, la prima stava come ho già detto. Non avevo conoscenze, il che era una delle mie peggiori sfortune, e per conseguenza non avevo nessuno che mi consigliasse o, almeno, mi desse la sua assistenza; soprattutto, non avevo nessuno al quale poter confidare il segreto della mia situazione, né della cui segretezza e fedeltà potermi fidare; scoprii per esperienza che quella di non aver amici è la peggiore condizione in cui una donna può trovarsi, quasi come essere in miseria; dico una donna, perché è evidente che un uomo sa sempre orientarsi da solo e prendere le sue decisioni, e trarsi d’impaccio e cavarsela negli affari meglio di una donna; ma se una donna non ha un amico da mettere a parte degli affari suoi, per farsi consigliare e assistere, nove volte su dieci è perduta. Anzi, più denaro ha, più si trova in pericolo d’essere imbrogliata e ingannata; e questo fu il caso mio nella vicenda delle cento sterline che io lasciai in mano al gioielliere, come ho detto, benché il credito di colui fosse già in rovina, ma io che non avevo pratica di quelle cose né qualcuno col quale consigliarmi, non ne sapevo nulla, e persi così il mio denaro.

In secondo luogo, quando una donna si trova così derelitta e priva di consiglio, è come una borsa di denaro o di gioielli gettata in mezzo alla strada, che può esser preda del primo che passa; se capita che la trovi un uomo d’onore e di retti principi, farà strillar l’avviso, e può darsi che il proprietario ne abbia così notizia; ma quante sono le volte che una tal cosa cade in mano di chi non si fa scrupolo d’impadronirsene, rispetto a quell’unica volta in cui cade in buone mani? Quello era evidentemente il caso mio, perché io ero ora una creatura spersa e senza guida, non avevo aiuto, né assistenza, né criterio per comportarmi. Sapevo quel che volevo e quello di cui avevo bisogno, ma non sapevo con quali mezzi avrei potuto raggiungere il mio scopo. Volevo collocarmi in una esistenza regolare, e avessi trovato un marito bravo e tranquillo sarei stata una moglie onesta e fedele, come forgiata in un sol pezzo di virtù. Se le cose m’andavano invece altrimenti, il vizio si sa che bussa sempre alla porta del bisogno, mai a quella dell’intenzione: quanto vale una vita regolare, poiché ne sentivo il bisogno, io lo capivo fin troppo bene per non fare tutto il possibile per procurarmene la gioia; anzi, sarei stata una moglie più brava di tante altre proprio per tutte le traversie che avevo passato, bravissima addirittura; né del resto tutte le volte che ero stata moglie avevo mai scontentato col mio comportamento i miei mariti.

Ma tutto ciò non serviva a nulla. Non mi capitò nessuna occasione favorevole. Aspettai. Feci una vita tranquilla, poco dispendiosa, come si addiceva alla mia condizione, ma non uscì nulla, non saltò fuori nulla, e il mio capitale scemava a poco a poco. Non sapevo che fare: il terrore della miseria che si approssimava opprimeva l’animo mio. Avevo del denaro, ma non sapevo dove collocarlo, né l’interesse sarebbe stato sufficiente a mantenermi, o almeno non a Londra.

Alla fine si aprì un capitolo nuovo. C’era, nella casa dove abitavo, una donna di un paese del nord che era al servizio di una signora, e nulla ricorreva più frequentemente nei suoi discorsi del quanto fosse facile vivere al suo paese, quanto costava poco mantenersi; che abbondanza c’era di ogni cosa, e a buon mercato, che bella compagnia si trovava, e così via; finché alla fine io le dissi che lei m’aveva quasi tentato ad andarmene a vivere al suo paese; io che infatti ero vedova, pur se avevo abbastanza per vivere, non avevo però mezzo di far fruttare il mio; Londra era un luogo costoso e difficile; mi ero accorta che a Londra non riuscivo a vivere con meno di cento sterline all’anno, se non volevo privarmi di ogni compagnia, di ogni servitù, e rinunziare a farmi vedere in pubblico, addirittura seppellirmi in casa come se fossi stretta dal bisogno.

Occorre dire che a colei avevo fatto sempre credere, come a tutti gli altri, che ero molto ricca, o quanto meno che possedevo dalle tre alle quattromila sterline, se non di più, e ne disponevo direttamente; e lei fu piena d’attenzioni per me quando vide che io accarezzavo l’idea di andarmene al suo paese; mi disse che una sua sorella abitava vicino a Liverpool e che un suo fratello là era un gran signore e aveva vasti possedimenti anche in Irlanda; lei doveva andarvi fra due o tre mesi, e se io volevo farle compagnia sarei stata benvenuta come lei per un mese o due, finché avessi potuto decidere se mi piaceva il paese; e se mi andava di recarmi a vivere là, lei garantiva che potevano occuparsene loro, perché loro non davano alloggio a nessuno ma potevano raccomandarmi a qualche famiglia per bene, dove io avrei potuto sistemarmi con mia soddisfazione.

Se quella donna avesse conosciuto la mia vera condizione, non avrebbe teso tante trappole né fatto tante mosse faticose per catturare una povera derelitta come me, che catturata valevo ben poco. In verità io, poiché la mia situazione era quasi disperata e mi pareva che peggiore non potesse essere, non mi davo troppo pensiero di quel che mi sarebbe capitato, a patto che non mi si facesse fisicamente del male; così, mi lasciai persuadere, non senza una quantità di inviti e di professioni di amicizia sincera e cortesie di ogni genere, mi lasciai ripeto, persuadere ad andare con lei, e feci perciò i miei bagagli e mi preparai al viaggio, pur senza sapere assolutamente dove andavo.

Ora mi trovavo in grande perplessità. Quel poco che avevo al mondo era in denaro, oltre, come ho detto, un po’ d’argenteria, del lino, e i miei abiti; roba di casa ne avevo poca o nulla, perché avevo sempre abitato a pensione; ma non avevo al mondo una sola persona amica alla quale poter affidare quel poco che avevo o rivolgermi per disporne, e questo pensiero mi turbava giorno e notte. Pensai alla banca e alle altre compagnie di Londra, ma non avevo amici ai quali affidare l’incarico, e portarmi appresso polizze, titoli, cedole, mandati e così via non mi parve sicuro; infatti, se li perdevo, perdevo il mio denaro, ed ero perduta io; poteva capitarmi inoltre, per quei miei averi, d’essere rapinata e magari assassinata in qualche sperduto luogo. Ciò mi preoccupava terribilmente, e non sapevo che fare.

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