Moll Flanders (Collins Classics) (41 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Tutte le mie terribili paure erano passate, gli orrori di quel luogo m’erano divenuti familiari, e io non mi sentivo a disagio, per il chiasso e il clamore del carcere, più di coloro che quel chiasso facevano; in poche parole, ero diventata il tipico animale di Newgate, cattiva e imbestiata quanto gli altri; anzi, quasi non conservavo più nemmeno l’abitudine alla buona educazione e alle belle maniere, che fino a quel momento avevano sempre contraddistinto il mio comportamento; tanto completamente la degenerazione s’era impadronita di me, che io non ero più quella che ero stata un tempo, come se fossi stata sempre quel che ero adesso, proprio nel pieno di quel momento così duro della mia vita, un’altra sorpresa, che mi fece riprovare un po’ quella cosa che si chiama dolore, e della quale per la verità stavo incominciando a smarrire la nozione. Una notte mi dissero che avevano portato in carcere, la sera prima sul tardi, tre banditi di strada, che avevano commesso una rapina in un punto della strada per Windsor, credo che fosse Hounslow Heath, ed erano stati inseguiti per le campagne fino a Uxbridge, e catturati dopo una valorosa resistenza, nella quale non so quante persone del posto erano rimaste ferite, e alcune uccise.

Non c’è da stupirsi che noi carcerate avessimo tutte una gran voglia di vedere quei tali così importanti e coraggiosi, dei quali si diceva che nessuno aveva mai conosciuto chi potesse star loro a pari, visto specialmente che si era saputo che al mattino li avrebbero messi nell’altro cortile, perché avevano dato del denaro al direttore della prigione per avere il permesso di alloggiare in quel settore migliore del carcere. Così tutte noi donne ci spostammo da quella parte, per esser sicure di vederli; ma non si può raccontare quali furono la mia meraviglia e il mio turbamento quando nel primo uomo che venne fuori riconobbi il mio marito del Lancashire, quello con il quale ero vissuta tanto bene a Dunstable, la stessa persona che avevo in seguito visto a Brickhill, il giorno del matrimonio con il mio ultimo marito, come ho già raccontato.

Rimasi ammutolita a quella vista, e non sapevo né che dire né che fare. Lui non mi riconobbe, e quello fu l’unico sollievo che ebbi per il momento. Lasciai la gente con la quale ero, mi isolai per quanto è possibile isolarsi in quel tremendo luogo, e per un bel pezzo me ne stetti a piangere dirottamente. “Sciagurata creatura che sono,” dissi, “quanti poveretti ho gettato nella sventura, quanti infelici ho mandato in rovina?” Delle sventure di quel gentiluomo mi davo tutta la colpa io. A Chester mi aveva detto che s’era rovinato con quel matrimonio, e che la sua sorte era ormai per causa mia senza più speranza; infatti, credendomi ricca, aveva fatto più debiti di quanti ne poteva pagare, e non aveva più una strada da prendere; sarebbe andato ad arruolarsi nell’esercito a fare il moschettiere, o si sarebbe comprato un cavallo per andare in giro, come diceva; e anche se non ero mai stata io a dirgli che ero ricca, e cioè non ero stata direttamente io a imbrogliarlo, tuttavia l’avevo incoraggiato a crederlo, ed ero stata in tal modo la causa prima della sua rovina.

La stranezza di quel fatto mi colpì profondamente nell’animo, e mi fece fare riflessioni più serie di quanto non mi fosse accaduto fino a quel momento. Stavo notte e giorno in pena per lui, tanto più che mi avevano detto che era lui il capo della banda, e che aveva commesso tante rapine che Hind o Whitney o Golden Farmer erano niente al suo confronto; che l’avrebbero impiccato di sicuro, anche se non fosse rimasto un uomo solo nel paese dov’era nato; e contro di lui sarebbero venuti in molti a deporre.

Io ero sopraffatta dalla pena per lui; il caso mio non m’importava nulla a paragone del suo, e mi facevo un mucchio di rimproveri per lui. Piangevo la sua sciagura, e la rovina nella quale era precipitato, al punto che ora non la vedevo più allo stesso modo di prima, e i primi pensieri che m’erano venuti alla mente sulla maniera tremenda e deprecabile nella quale ero vissuta mi incominciarono a ritornare, e fui ripresa anche dal senso di orrore per il luogo dove mi trovavo e per la vita che vi si conduceva; in poche parole, ero completamente mutata, ero diventata un’altra persona.

Mentre ero così afflitta dalla pena per lui, mi giunse notizia che, avvicinandosi l’epoca della nuova sessione, sarebbe stata presentata l’accusa contro di me davanti alla grande giuria, e che io sarei stata processata all’Old Bailey con la probabilità d’essere condannata a morte. La mia tempra era già scossa, la sciagurata e ostinata forza d’animo che avevo acquistato mi abbandonò, e, rendendomi conto d’essere in carcere, mi sentii lo spirito occupato interamente dal senso di colpa. In breve, incominciai a pensare, e quello di pensare è l’unico vero progresso che si possa compiere dall’inferno verso il cielo. Tutta quella infernale, dura condizione di spirito di cui prima ho detto non è che un’assenza di pensiero; chi torna a essere capace di pensare, torna in se stesso.

Appena incominciai, come dico, a pensare, la prima cosa che mi venne in mente fu: “Signore! che sarà di me? Certamente morirò! Mi condanneranno di certo, e poi non c’è altro che la morte! Non ho amici: che farò? Sarò certamente condannata! Dio, abbi pietà di me! Che sarà di me?” Erano pensieri da poco, voi direte, per essere i primi di quel genere che, dopo tanto tempo, mi venissero in mente, eppure anche quella era solo paura per quel che stava per toccarmi; non c’era una sola parola di pentimento sincero. Comunque, ero veramente molto avvilita, e disperata in sommo grado; e poiché non avevo amici al mondo da mettere a parte dei miei dolorosi pensieri, ne ero tanto oppressa che parecchie volte al giorno cadevo in preda a convulsioni e svenimenti. Mandai a chiamare la mia vecchia governante, che, va detto a suo merito, si comportò come una vera amica. Non trascurò nessuna possibile strada, nel tentativo di ottenere che la gran giuria non desse corso all’accusa. Scovò un paio di giurati, parlò con loro, si sforzò di disporli favorevolmente, perché niente era stato portato via, non c’era stato nessuno scasso, eccetera; ma non servì a nulla, quelli erano sopraffatti dal resto; le due ragazze prestarono giuramento sul fatto, e la giuria formulò contro di me le accuse di furto e violazione di domicilio, vale a dire di rapina aggravata con scasso.

Io mi sentii mancare quando me ne dettero notizia, e, tornata in me, mi parve di morire sotto il peso della sventura. La mia governante si comportò con me come una vera mamma; mi commiserò, pianse insieme a me e per causa mia, ma non riuscì ad essermi di nessun aiuto; e ad accrescere lo spavento stava il fatto che in quel luogo non si parlava d’altro, tutti dicendo che io andavo a morte sicura. Le sentivo spesso parlarne fra loro e le vedevo scuotere il capo e dire che erano dispiaciute, e cose simili, come accade di solito in quel luogo. Nessuno però venne a dirmi quel che pensava, finché alla fine uno dei carcerieri mi prese in disparte e mi disse con un sospiro: “Così, signora Flanders, sarete processata venerdì (era ancora mercoledì): che cosa avete intenzione di fare?”

Io divenni bianca come uno straccio, e dissi: “Dio solo lo sa; per parte mia, io proprio non lo so.”

“Ecco,” dice lui, “non voglio illudervi, sarebbe il caso che vi preparaste a morire, perché io penso che vi condanneranno; e, siccome dicono che siete una vecchia delinquente, penso che non sarete trattata con troppa indulgenza. Si dice,” aggiunse, “che il caso vostro è molto semplice, e che siccome i testimoni hanno prestato giuramento sul fatto, il processo durerà ben poco.”

Fu quella una vera pugnalata al cuore per una che già si sentiva oppressa sotto quel peso, e per un certo tempo io non riuscii a rivolgere a colui una parola, né in bene né in male; ma alla fine scoppiai in lacrime e gli dissi: “Dio mio, signor…, che cosa posso fare?”

“Fare?” dice lui, “mandate a chiamare il cappellano; chiamate un prete, e vedetevela con lui; perché la verità, signora Flanders, a meno che abbiate amici molto importanti, è che siete una donna che non è più di questo mondo.”

Questo sì, che si chiamava parlar chiaro, ma era molto duro per me, o almeno così mi sembrò. Quello mi lasciò in preda alla più grande agitazione pensabile, e restai sveglia per tutta la notte. E incominciavo adesso a dire le mie preghiere, cosa che avevo raramente fatto da quando era morto il mio ultimo marito, o da poco tempo dopo. E posso ben dire che quelle che dicevo erano proprio le preghiere mie, perché, in quello stato d’agitazione, con l’animo terrorizzato, pur se piangevo e ripetevo più volte la solita frase “Signore, abbi pietà di me!”, non giungevo però mai a convincermi d’essere la miserabile peccatrice che ero, né a confessare i miei peccati davanti a Dio, né a chiedere perdono in nome di Gesù Cristo. Ero sopraffatta dalla situazione in cui mi trovavo, prossima a rischiare la vita in un processo, sicura di essere condannata, e tanto sicura anche di finire giustiziata, che per quella ragione piansi tutta la notte gridando: “Signore! Che sarà, di me? Signore! Che farò? Signore! Mi impiccheranno! Signore, abbi pietà di me!” e così via.

La mia povera afflitta governante era adesso preoccupata quanto me, e faceva, anche più di me, vera penitenza, anche se per lei non c’era la prospettiva d’essere processata e condannata. Non che non lo meritasse quanto me, e lo diceva anche lei; erano anni che non faceva altro che prendere quel che rubavamo io e le altre, e spingerci a rubare. Ma piangeva, e pareva diventata matta, si torceva le mani, strillava che era finita, che incombeva su di lei la maledizione celeste, che la dannazione era certa per lei, era stata lei la rovina di tante amiche sue, e aveva fatto finire sulla forca la tale, la talaltra e la talaltra ancora. Ed elencava così dieci o undici persone, di alcune delle quali ho raccontato come giunsero ad immatura fine; e adesso diceva che era lei la causa della rovina mia, perché era stata lei che mi aveva persuasa a continuare, quando io volevo smettere. Io la interruppi. “No, mamma, no,” dissi, “non dire questo, perché tu volevi che smettessi quando presi i soldi del merciaio, e poi quando tornai a casa da Harwich, e io non ti stetti a sentire; perciò non è tua la colpa; sono stata io a rovinarmi; sono stata io a ridurmi tanto male.” E così trascorremmo insieme molte ore.

Non c’era, insomma, rimedio, e il giovedì mi portarono in tribunale, dove fui, come si dice, imputata e per il giorno dopo fu fissato il processo. All’imputazione io mi dichiarai “non colpevole”, e avevo ragione, perché ero accusata di rapina aggravata con scasso: di avere, cioè, fraudolentemente sottratto due pezze di broccato del valore di sterline quarantasei dalla proprietà di Anthony Johnson, e aver aperto con scasso la porta del di lui domicilio, quando io sapevo benissimo che mica potevano pretendere di provare che avevo scassinato la porta, nemmeno un saliscendi avevo alzato.

Il venerdì mi portarono al processo. Avevo speso tutte le mie energie per piangere, in quei due o tre giorni, e così, la notte del giovedì, dormii meglio di quel che avrei creduto, e mi ritrovai, per il processo, più coraggio di quanto era verosimile avessi.

Quando il processo incominciò, letta l’accusa, io avrei voluto parlare, ma mi dissero che prima bisognava ascoltare i testimoni, avrei avuto tutto il tempo per farmi sentire. Testimoni erano le due ragazze, davvero una bella coppia di lingue lunghe, perché, per quanto la cosa già volgesse al peggio, riuscirono ad aggravarla ancora, al massimo, e giurarono che io avevo completamente in mio possesso la roba, me l’ero nascosta sotto il vestito, me la stavo portando via, avevo già un piede sulla soglia quando loro mi avevano pescata, e allora avevo messo avanti l’altro piede, sicché ero già completamente uscita di casa con la roba, in strada, prima che loro mi raggiungessero, afferrandomi, ributtandomi indietro, e trovandomi la roba indosso. Il fatto, in linea di massima, era tutto vero, ma io sostenevo, e su quel punto insistetti, di essere stata pescata prima di riuscire a mettere piede oltre la soglia di casa. Questo però non faceva gran differenza, perché non c’erano dubbi che la roba l’avevo presa, e che me la sarei portata via se non m’avessero pescata.

Ma io dichiarai che non avevo rubato niente, che loro non avevano perso niente, la porta era aperta, io ero entrata per vedere la roba che c’era, con l’intenzione di comprare. Se, vedendo che in casa non c’era nessuno, avevo preso in mano una cosa, non si poteva concludere che volevo rubarla, perché me l’ero soltanto portata fin sulla porta, per guardarla alla luce.

Questa la corte non me la fece buona, e a momenti mi prendevano anche in giro per quell’idea di voler comprare la roba, dato che quella non era affatto una bottega dove ci fosse roba in vendita; dell’idea che mi fossi portata la roba sulla soglia per guardarla bene, le cameriere si fecero allegramente beffa, e tirarono fuori tutto il loro spirito; dissero alla corte che io dovevo averla guardata abbastanza bene, la roba, e doveva anche essermi piuttosto piaciuta, se me l’ero messa sotto il vestito e me la stavo portando via.

Insomma, fui dichiarata colpevole di furto aggravato, ma assolta dall’accusa di scasso, il che era per me una ben modesta consolazione, visto che la prima cosa bastava a procurarmi la condanna a morte, e la seconda non poteva far di più. Il giorno dopo mi portarono giù a udire la sentenza terribile, e quando mi domandarono se avevo da dire qualcosa per oppormi alla esecuzione della sentenza, io restai muta per un po’, ma qualcuno che mi stava dietro mi incitò a parlare ai giudici, per far loro vedere la cosa in maniera più favorevole per me. Questo mi incoraggiò a parlare, e dissi allora che per oppormi alla sentenza non avevo nulla da dire, ma molto avevo da dire per impetrare la clemenza della corte; speravo che in un caso simile volessero tener conto delle circostanze; non avevo scassinato porte, non avevo portato via nulla; nessuno ci aveva rimesso niente; il tizio che era il padrone della roba si era compiaciuto di chiedere che mi si usasse clemenza (cosa che aveva fatto davvero, molto onestamente); nella peggiore delle ipotesi, era la prima volta, non ero mai stata prima in tribunale; in poche parole, parlai con più coraggio di quel che pensavo avrei avuto, e in tono così commovente, e piangendo, ma senza che le lacrime mi impedissero di parlare, tanto che vidi mettersi a piangere anche altri che mi sentivano.

I giudici rimasero seduti seri e silenziosi, mi ascoltarono tranquillamente, dandomi tutto il tempo di dire tutto quel che volevo, ma, senza rispondere né sì né no, pronunciarono contro di me la condanna a morte, condanna che era per me come la morte stessa, e, alla sola lettura, mi annientò. Non mi sentivo più fiato in corpo, non ebbi più lingua per parlare, né occhi da alzare verso Dio, né verso gli uomini.

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