Moll Flanders (Collins Classics) (6 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Mi lasciò nella più grave confusione di idee; se ne accorse facilmente il giorno dopo e per tutto il resto della settimana, poiché era stato soltanto il martedì sera che avevamo parlato; ma lui non ebbe occasione di venire da me per tutta la settimana, fino alla domenica seguente, quando io, sentendomi poco bene, non andai in chiesa, e lui, trovando una scusa adatta, rimase in casa.

Quella volta mi ebbe di nuovo da sola per un’ora e mezzo, e ricademmo da capo nelle stesse identiche discussioni, o almeno tanto simili che non vale la pena di riferirle. Alla fine io gli chiesi con veemenza che opinione aveva del mio pudore se pensava che io potessi soltanto ammettere l’idea di coricarmi con due fratelli, e gli assicurai che ciò non sarebbe avvenuto mai. Aggiunsi che, avesse anche lui minacciato di non vedermi più, cosa di cui solo la morte era per me più tremenda, io non avrei tuttavia accettato mai un’idea così disonorevole per me e così abbietta da parte sua; e perciò lo supplicai se aveva ancora un briciolo di rispetto e di affetto per me, che non mi parlasse più di quello, o sguainasse la spada e mi uccidesse. Lui apparve sorpreso dalla mia ostinazione, così la chiamò; disse che in ciò ero ingiusta con me e ingiusta con lui; era una crisi inattesa per entrambi, nessuno di noi due avrebbe potuto prevederla, ma lui per salvarci entrambi dalla rovina non vedeva altra via, e di conseguenza trovava tanto più ingiusto il mio modo di fare ma, se di quello non doveva parlarmi più, aggiunse con insolita freddezza, non sapeva di che altro potevamo parlare; e così si alzò per prendere congedo… Mi alzai anch’io, come con pari indifferenza; ma, quando lui venne a darmi una specie di bacio di commiato, scoppiai in una tale crisi di pianto che, pur cercando di parlare, non vi riuscivo, e gli stringevo la mano, come per dirgli addio, e non facevo che piangere molto forte.

Lui visibilmente si commosse per questo; così tornò a sedersi e mi disse un monte di cose gentili per farmi superare il punto peggiore della crisi; ma da capo affermò che era necessario quel che mi aveva consigliato; assicurandomi anche che, se io rifiutavo, avrebbe continuato lui a provvedere per me; ma mi lasciò chiaramente capire che non mi avrebbe più voluta per la cosa principale… e, cioè, per amante, appunto; si faceva un punto d’onore di non giacere con la donna che, come lui non poteva ignorare, aveva la possibilità di arrivare a essere la moglie di suo fratello.

La sola perdita dell’innamorato non mi dava dolore quanto la perdita della sua persona fisica, che in verità io amavo alla follia, né quanto la perdita di tutte le ragioni che avevo avuto per aspettarmi di averlo un giorno per marito, e sulle quali avevo fondato ogni mia speranza. Queste cose mi sconvolsero a tal punto la mente che, in breve, caddi gravemente ammalata; in una parola, le angosce dello spirito mi fecero venire la febbre alta, e tanto durò che in casa tutti disperavano della mia salvezza.

Mi ridussi davvero male, spesso deliravo e vaneggiavo; ma nulla mi era così presente quanto la paura di poter dire, nei miei vaneggiamenti, una cosa o un’altra che riuscissero di pregiudizio a lui. Io ero sconvolta di mente anche per la smania di vedere lui, e lui per veder me, perché in realtà mi amava con grandissima passione; ma non si poté; non vi fu per nessuno dei due la minima possibilità di desiderarlo, e tanto meno di farlo con decenza.

Quasi cinque settimane rimasi a letto, e benché la febbre alta in capo a tre settimane fosse passata, tuttavia tornò a salire diverse volte; i medici dissero un paio di volte che non potevano far nulla per me, ma dovevano lasciar combattere fra loro la natura e la malattia, limitandosi a rinforzare la prima con dei cordiali per farle continuare la sua lotta. Passate cinque settimane, cominciai a star meglio, ma ero così debole, così trasformata, così malinconica, e mi rimettevo così lentamente che i medici temettero che io mi ammalassi di consunzione; e il peggio fu che a loro dire la mia mente era oppressa, qualcosa mi turbava, insomma ero innamorata. Dopo questo, tutta la famiglia si mise a studiarmi, a insistere perché dicessi se ero innamorata o no, e di chi; ma io, meglio che potei, negai nel modo più assoluto di essere innamorata.

In proposito ebbero un giorno a tavola una discussione, che stava per scatenare una lite di famiglia, e sulle prime così sembrò. Capitò che erano a tavola tutti, meno il padre; io ero ammalata e in camera mia. All’inizio del discorso, quando ebbero terminato di far colazione, la vecchia signora, che mi aveva inviato qualcosa da mangiare, dette ordine alla cameriera di salire a sentire se ne volevo ancora; la cameriera tornò giù con la notizia che io non avevo mangiato nemmeno la metà di quel che m’avevano mandato prima.

“Ahimè,” dice la vecchia signora, “povera ragazza, ho paura che non si rimetta più.”

“Già,” dice il fratello maggiore, “e come potrebbe rimettersi? Si dice che sia innamorata.”

“Io non ci credo affatto,” dice la vecchia signora.

“Io non so che dire,” dice la sorella maggiore. “S’era fatto tanto chiasso sulla sua bellezza, sul suo fascino e su non so che, e in maniera che lei sentisse tutto, per giunta, che la povera ragazza ha perso la testa, secondo me. Chissà quali fissazioni possono formarsi in un cervello per una cosa simile. Per parte mia, non so proprio che dire.”

“Devi però riconoscere, sorella, che è molto bella,” dice il fratello maggiore.

“Certo, molto più bella di te, sorella,” dice Robin, “ed è questo che ti dà fastidio.”

“Macchè, non è quello il problema,” dice la sorella. “La ragazza è già abbastanza carina, e lo sa già abbastanza da sé, non ha bisogno che glielo dicano, per darsi le arie.”

“Non stiamo discutendo se si dà le arie,” dice il fratello maggiore, “ma se è innamorata; forse è innamorata di se stessa; pare che mia sorella la pensi così.”

“Vorrei che fosse innamorata di me,” dice Robin. “Farei presto a farle passare la malattia.”

“Che cosa vuoi dire, figliolo?” dice la madre. “Che modo di parlare è questo?”

“Ma, signora madre,” dice Robin, schietto, “pensi che io lascerei morire d’amore la povera ragazza, e proprio per uno che è così a portata di mano?”

“Vergogna, fratello,” dice la seconda sorella. “Che modo di parlare è il tuo? Tu sposeresti una che non ha un quattrino di dote?”

“Se non ti dispiace, piccola,” dice Robin, “è una dote la bellezza, e se c’è anche il buon umore la dote è doppia. Io auguro a te di avere in dote metà di quel che ha lei.” E così, quella tacque.

“A me pare,” disse la sorella maggiore, “che se non è innamorata la Betty, è innamorato mio fratello. Chissà se ha già aperto il suo cuore alla Betty. Garantisco che lei non dirà di no.”

“Quelle che dicono di sì quando vengono richieste,” dice Robin, “sono un gradino più in su di quelle che non sono mai state richieste, e due gradini più in su di quelle che dicono di sì prima di essere state richieste; eccoti la risposta, sorella.”

La sorella s’infuriò, fu presa dall’indignazione, e disse che le cose erano arrivate a un punto tale che era tempo che la donzella, cioè io, fosse messa fuori di casa; e, se adesso non era in condizioni da esser messa fuori, lei sperava però che suo padre e sua madre ci volessero pensare non appena sarebbe stato possibile trasportarla.

Robin rispose che la cosa riguardava il capofamiglia e la padrona di casa, i quali non avevano bisogno di lezioni da chi aveva così poco giudizio come la sua sorella maggiore.

Andò avanti un bel pezzo; rimbrotti della sorella, repliche e frizzi di Robin, ma chi perse terreno in famiglia fu la povera Betty. Quando io lo seppi feci un gran pianto, e la vecchia venne su da me perché le avevano detto che io me l’ero presa molto. Io mi lamentai con lei, dissi che era stato cattivo da parte dei dottori farmi quel rimprovero, più cattivo ancora se si pensava qual era la mia condizione in famiglia; speravo di non aver fatto nulla per far diminuire la sua stima per me, né per far bisticciare i fratelli e le sorelle, e più che a trovar l’amore dovevo pensare a trovarmi una cassa da morto, e la supplicai di farmi colpa degli errori miei, non di quelli degli altri.

Lei trovò ragionevole quel che dicevo e mi disse che, per il chiasso che avevano fatto e per il modo tortuoso in cui il suo figlio minore aveva parlato, voleva da me una prova di fiducia, una risposta sincera a una sola domanda. Io le promisi di farlo, con tutto il cuore, nel modo più semplice e sincero. Bene, la domanda era se c’era qualcosa tra suo figlio Robert e me. Io, con l’accento di maggior sincerità che riuscii a trovare, e in fondo dicevo il vero, dissi che no, non c’era, non c’era mai stato. Le dissi che il signorino Robert aveva fatto il burlone e il tortuoso, come lei sapeva che era sua abitudine, e che io avevo preso le sue per chiacchiere strampalate prive di senso. Di nuovo le assicurai che non c’era fra noi la più piccola briciola di quel che pensava lei. Chi l’aveva insinuato aveva fatto molto male a me e nessun bene al signorino Robert.

La vecchia fu tutta contenta, mi baciò, mi parlò con allegria, mi disse di badare alla mia salute e di non pensare ad altro, e se ne andò. Ma, scesa giù, trovò il figlio e tutte le figlie che si stavano prendendo per i capelli. Erano furibonde, scalmanate, perché lui le aveva prese in giro sul fatto che erano così casalinghe, non avevano mai innamorati, non avevano avuto ancora proposte di matrimonio, e quasi eran loro che si azzardavano a proporsi. Lui le stuzzicava sull’argomento della signorina Betty; quant’era graziosa, e spiritosa, e come cantava e ballava meglio di loro, e quanto era più bella; e intanto non rinunciava a nessuna cattiveria che potesse dispiacer loro, e per la verità ci andava un po’ pesante. La vecchia arrivò giù nel colmo della disputa, disse basta, raccontò a tutti la conversazione che aveva avuto con me, e come avevo risposto io, e che fra me e il signorino Robert non c’era niente.

“Qui sbaglia,” Robin dice, “è proprio perché una cosa c’è che non siamo insieme come sarebbe possibile. Io gliel’ho detto, che l’amo immensamente,” dice, “ma non sono mai riuscito a far capire a quella bambola che parlo sul serio.”

“Non saprei come potevi riuscirci,” dice la madre. “Nessuna persona di senno ti avrebbe preso sul serio, sentendoti parlare così a una povera ragazza, la cui condizione conosci tanto bene anche tu.

“Ma scusa, figlio mio,” continua, “se mi dici che non sei riuscito a convincere lei che parli sul serio, che cosa dobbiamo pensare noi? Tu ti arrampichi tanto, quando parli, che non si sa mai se fai sul serio o se scherzi; ma siccome la ragazza, a mio parere, e come tu stesso ammetti, ha risposto con sincerità, io vorrei che lo facessi anche tu, e mi dicessi seriamente, che io possa regolarmi: c’è o non c’è qualcosa? Sei impazzito, insomma, oppure no? È una domanda seria, questa, vorrei che tu fossi chiaro con noi.”

“In fede mia, signora mamma,” dice Robin, “è inutile minimizzare e dire altre bugie. Io parlo seriamente, come uno che sta per essere impiccato. Se la Betty dice che mi ama e che mi vuol sposare, io domattina presto la prima cosa che faccio, invece di far colazione, me la sposo, e dico “ce l’ho e me la tengo”.”

“Così,” dice la madre, “si perde un figlio.” Lo disse con un tono di voce molto lugubre, come chi è molto addolorato.

“Spero di no, signora mamma,” dice Robin. “Nessuno si perde, se una brava moglie lo trova.”

“Sì, ma, bambino,” dice la vecchia, “quella è una pezzente.”

“E allora, signora mamma, tanto più ha bisogno di carità,” dice Robin. “La toglierò dalle cure della parrocchia, e lei e io ce ne andremo insieme a mendicare.”

“Non si scherza su queste cose,” dice la madre.

“E io non scherzo, mamma,” Robin dice. “Verremo a chiedere il tuo perdono, mamma, la tua benedizione, e quella di papà.”

“È sbagliata la strada, ragazzo,” dice la madre. “Se parli sul serio, sei impazzito.”

“Ho paura di no,” dice lui, “ho davvero paura che lei mi dirà di no. Dopo tutte le urla e tutta l’arroganza delle mie sorelle, non so come farò a convincerla.”

“Bella storia, questa. Lei non è poi uscita di senno. Mica è scema, la Betty,” dice la sorella minore. “Credi proprio che sia più brava delle altre a dir di no?”

“No, signorina Giuliva,” dice Robin, “la Betty non è scema; ma potrebbe avere un altro fidanzato, e allora?”

“Come no,” dice la sorella maggiore, “ma non ne sappiamo nulla. Chi sarà mai? La Betty non esce mai di casa. Perciò dovete vedervela tra voi due.”

“Io su questo non ho nulla da dire,” Robin dice, “io sono stato esaminato già abbastanza. C’è mio fratello. Se il dubbio è fra noi due, occupatevi un po’ di lui.”

Questo colpì nel vivo il fratello maggiore, il quale si convinse che Robin aveva scoperto qualcosa. Si guardò tuttavia dal mostrarsi turbato. “Scusa,” dice, “non gettarmi addosso le tue storie; non è il mio genere, te l’assicuro; non ho niente da dire alla Betty, né a tutte le altre Betty della parrocchia.” Con questo, si alzò e se la squagliò.

“Sì,” dice la sorella maggiore, “garantisco io per mio fratello. Lui sì che sa come si sta al mondo.”

La conversazione finì così, ma lasciò il fratello maggiore un po’ perplesso. Si convinse che suo fratello aveva scoperto tutto, e cominciò a chiedersi se io c’entravo o no; ma, con tutta la sua abilità, non riusciva a trovare il modo di venire da me. Alla fine, preoccupato al limite della disperazione, decise di venirmi a trovare in camera mia, andasse come doveva andare. A tale scopo, si dette da fare finché un giorno, dopo colazione, vista la sorella salir le scale, le corre dietro e “Senti, sorella,” dice, “dov’è la malata? Non la si può vedere?”

“Sì” dice la sorella, “penso che tu puoi; ma lascia entrare prima me, te lo dirò.” Così corse di sopra e mi avvertì, e subito chiamò lui. “Fratello,” dice, “vieni se vuoi.” Così entrò lui, sempre solenne.

“Così,” dice sulla soglia, entrando, “dov’è l’ammalata innamorata? Come va, signorina Betty?”

Io volevo levarmi dalla poltrona, ma ero tanto debole che per un po’ non vi riuscii; se ne accorse lui, e anche la sorella, che disse: “Su, non fare sforzi per alzarti; mio fratello non vuol complimenti, specie ora che sei così debole.”

“No, no, signorina Betty, ti prego, siedi,” dice lui, e si siede in poltrona proprio di fronte a me, e sembrava tutto contento.

Raccontò un monte di storie curiose alla sorella e a me, su questo e su quello, con l’idea di divertire la sorella, e di quando in quando tornava al vecchio discorso, rivolgendosi a me.

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