Moll Flanders (Collins Classics) (8 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Tornò a me, mi prese fra le braccia e mi baciò con molta tenerezza, ma disse che aveva un lungo discorso da farmi, e che eravamo ormai giunti al punto critico, io dovevo scegliere per la vita tra la felicità e la sventura; le cose erano andate ormai così avanti che, se io non accondiscendevo al suo desiderio, era la rovina di tutti e due. Poi mi raccontò tutta la scena che s’era svolta fra Robin, come lo chiamava, le sorelle, la madre e lui, e che ho già detto. “E adesso, ragazza cara,” dice, “pensa che cosa significa sposare un gentiluomo di buona famiglia, in floride condizioni economiche, col consenso di tutti i parenti, e godere di quello che il mondo può offrirti; e che cosa significa, al contrario, precipitare al livello di una donna che si è rovinata la reputazione; pensa anche che, pur restandoti io amico in segreto per tutta la vita, tuttavia io sarò sempre sospettato, tu non avrai il coraggio di vedermi, né io il coraggio di venire con te.”

Non mi dette il tempo di replicare, e così proseguì: “Quel che c’è stato fra noi, bambina, se tutti e due siamo d’accordo, si può seppellire e dimenticare. Io sarò sempre tuo amico sincero, senza mirare ad una più stretta intimità con te, dal momento che diventi mia sorella. Ci potrà sempre essere tra noi ogni rapporto che onestamente ci piacerà, senza doverci rimproverare a vicenda di averne sprecata l’occasione. Io ti supplico di riflettere; di non essere nemica della tua salvezza e della tua fortuna; e, per convincerti della mia sincerità,” aggiunse, “ecco, ti regalo cinquecento sterline in contanti, a titolo di riparazione per le libertà che mi presi con te e che ricorderemo come un momento di follia della nostra vita, del quale speriamo di poterci pentire.”

Disse tutto ciò con accenti tanto più commoventi di quel che io so trovare, e con una forza di persuasione tanto più grande di quel che io so riferire, che una cosa sola io lascio da immaginare a chi legge questo racconto, e cioè in che modo lui, rimasto a intrattenermi per un’ora e mezzo con quella conversazione, seppe rispondere a tutte le mie obbiezioni e sostenere il suo punto di vista con tutti gli argomenti dei quali dispongono l’ingegno e la fantasia dell’uomo.

Devo comunque dire che di tutti i suoi discorsi nessuno mi aveva fatto troppa impressione né mi aveva indotto a riflettere sulla faccenda, finché alla fine lui non m’ebbe detto con tutta chiarezza che, se io mi opponevo, lui mai più si sarebbe rimesso con me nella posizione in cui eravamo stati prima; benché mi amasse sempre tanto, e gli piacessi sempre come prima, tuttavia il sentimento dell’onore non l’aveva abbandonato al punto da consentirgli di coricarsi con la donna che suo fratello corteggiava e voleva sposare; se lui ora era costretto a congedarsi da me con un mio rifiuto a quel riguardo, ogni sua possibilità di aiutarmi si riduceva alla sua precedente promessa di mantenermi, e io non dovevo meravigliarmi se lui era costretto a dirmi che non si sarebbe potuto più permettere di vedermi. Quello, da lui, non me l’aspettassi più.

Io accolsi l’ultima parte con segni di stupore e turbamento, e dovetti fare uno sforzo per non svenire, perché in verità è difficile immaginare quanto perdutamente io lo amassi. Lui si accorse del mio turbamento. Mi implorò di riflettere seriamente, mi assicurò che era quello l’unico modo di salvare il nostro affetto reciproco; potevamo, con quella sistemazione, volerci bene come amici, con tutto il cuore, e restar legati da un rapporto amoroso immacolato, senza scrupolo nostro né sospetto altrui; lui avrebbe sempre riconosciuto quanta felicità mi doveva, per tutta la vita mi sarebbe rimasto debitore, e avrebbe pagato quel debito fino all’ultimo respiro. Così mi rese, insomma, prigioniera del dubbio; da una parte, vedevo bene i pericoli, raffigurati con tutta chiarezza, e me li ingigantiva il pensiero di quel che sarebbe accaduto di me, gettata per il mondo come una puttana scacciata e nulla più, perché era proprio così, e abbandonata a me stessa, con minime risorse, senza amici e senza conoscenze al mondo, via da quella città, dove certo non potevo pretendere di rimanere. Tutto questo mi terrorizzava, e lui non perdeva occasione per dipingermi a fosche tinte il quadro. Dall’altra parte, non mancava di mostrarmi in tutti i modi la vita facile e ricca che potevo fare.

A tutto quel che io gli obbiettavo, richiamandomi ai sentimenti e alle promesse di un tempo, lui rispose dicendomi che ci trovavamo ora nella necessità di prendere decisioni diverse; quanto alle sue promesse di matrimonio, disse, era stata la realtà delle cose a toglierle di mezzo con la prospettiva per me di diventare moglie di suo fratello prima che giungesse il tempo al quale le sue promesse si riferivano.

Tanto fece per farmelo capire che, in poche parole, io non capii più nulla. Lui sconfisse tutte le mie argomentazioni, e io cominciai ad accorgermi che mi trovavo di fronte a un pericolo al quale non avevo pensato prima, cioè di essere abbandonata da tutti e due, e lasciata sola al mondo a sbrigarmela da me.

Questo, unito alle sue insistenze, mi indusse alla fine a dire di sì, con tale riluttanza tuttavia, che si doveva vedere benissimo che mi lasciavo trascinare all’altare come un orso al palo. Avevo inoltre, per parte mia, qualche motivo di preoccuparmi; per il caso che il mio novello sposo, nei confronti del quale a dir la verità non provavo il minimo slancio d’affetto, si rivelasse pratico al punto da lamentarsi di me a proposito di un’altra cosa, la prima volta che saremmo andati a letto insieme. Ma pensò il fratello maggiore, e non so se lo fece di proposito oppure no, a farlo bere molto prima che venisse a letto, e così io ebbi la soddisfazione di avere come compagno di letto un ubriaco per la mia prima notte di nozze. Come vi riuscì io non lo so, ma mi convinsi che doveva aver deliberatamente escogitato quel trucco per impedire al fratello di rendersi conto della differenza che passa fra una ragazza e una donna maritata; quello, del resto, non ne aveva mai saputo nulla, e non se ne dette mai pensiero.

Devo tornare un momento dov’ero rimasta. Sistemata me, il fratello maggiore affrontò subito il problema di sistemare la madre, e non s’arrese finché non l’ebbe convinta a dare il suo consenso e a non occuparsi del resto, senza nemmeno informare il marito se non con una lettera; lei consentiva così alle nostre nozze in forma privata, e avrebbe poi pensato lei a sistemare le cose col padre.

Lui poté allora darsi vanto col fratello minore, contandogli che gran servizio gli aveva reso e come aveva indotto la madre a dare il suo consenso, anche se, per dir la verità, il servizio l’aveva reso più a se stesso che a lui. Ma lo imbrogliò proprio per bene, e si fece ringraziare come amico fedele per aver scaricato la sua puttana fra le braccia del fratello. Tanto completamente l’egoismo mette al bando ogni specie di sentimento, tanto facilmente l’uomo, per non correre rischi, rinunzia all’onore, alla rettitudine e persino allo spirito cristiano.

Devo tornare ora al fratello Robin, come lo chiamavamo sempre, che quand’ebbe, come si è visto, il consenso della madre, venne da me con la grande notizia e mi raccontò tutta la storia, con così manifesta ingenuità che io, lo confesso, mi dolsi d’essere strumento di un imbroglio ai danni di un uomo tanto onesto. Ma non v’era rimedio. Lui mi prendeva, e io, pur non avendo altro modo di oppormi, non potevo tuttavia dirgli che ero la puttana di suo fratello. Così a poco a poco mi lasciai convincere, con sua grande soddisfazione, e finì che ci sposammo.

Il pudore mi impedisce di svelare i segreti del letto di nozze, ma non poteva andar meglio, per la mia condizione, di come andò, con mio marito che, come si è già detto, aveva bevuto tanto, quando venne a letto, che la mattina dopo non riusciva a ricordarsi se aveva avuto o no quella certa discussione con me, e io fui costretta a dirgli di sì, benché in realtà non fosse vero, in modo da esser certa che non facesse indagini su altro.

Avrebbe poco a che fare con la storia che narro addentrarmi in altri particolari su quella famiglia, o su di me, per i cinque anni che vissi con mio marito, quando avrò detto che ebbi da lui due bambini e che in capo a cinque anni, morì. Era stato per me un ottimo marito davvero, eravamo vissuti bene insieme; ma, poiché lui non aveva avuto gran che dai suoi, e nel poco tempo che era vissuto non aveva fatto gran fortuna, io mi trovai in condizioni non troppo prospere, e senza che il matrimonio mi avesse messa a posto. Avevo, in realtà, conservato i titoli, per un valore di cinquecento sterline, che il fratello maggiore mi aveva dato per convincermi a sposare suo fratello; e questi, col denaro che lui mi aveva dato prima e con altrettanto quasi che ebbi da mio marito, fecero di me una vedova con qualcosa come milleduecento sterline in tasca.

I miei due figli mi furono per fortuna tolti di mano dal padre e dalla madre di mio marito; e questo fu, comunque, tutto quello che ebbero dalla Betty.

Confesso che non fui adeguatamente colpita dalla perdita di mio marito, né in verità posso dire di averlo amato mai come sarebbe stato mio dovere e come sarebbe stato giusto in rapporto al trattamento che lui mi usò, perché era l’uomo più affettuoso, gentile, allegro che una donna possa desiderare; ma suo fratello, che avevo sempre davanti agli occhi, almeno finché restammo in provincia, era per me una tentazione continua, e io non riuscivo mai a stare a letto con mio marito senza desiderare di stare fra le braccia del fratello; e, benché il fratello, dopo le mie nozze, non mi rivolgesse mai nessuna attenzione di quel genere e si portasse invece proprio da bravo fratello, io però non riuscivo a essere così con lui; insomma, commisi ogni giorno adulterio e incesto con lui, col pensiero, la quale era senz’altro una bella porcheria, della quale io ero colpevole come se l’avessi fatta realmente.

Prima della morte di mio marito, il fratello maggiore si sposò, e noi, che intanto ci eravamo trasferiti a Londra, ricevemmo dalla vecchia signora una lettera che ci invitava al matrimonio. Mio marito andò, ma io finsi di non stare bene e di non sentirmi di affrontare il viaggio, e così restai a casa; non potevo, infatti, sopportare la vista di un’altra donna che se lo prendeva, anche se sapevo di non poterlo avere io mai più.

Adesso ero, come ho detto, rimasta sola al mondo, e poiché ero ancora giovane e molto bella, come dicevano tutti e come vi assicuro che anch’io mi sapevo, con una fortuna passabile in tasca, non erano poche le arie che mi davo. Fui corteggiata da diversi rispettabili commercianti e con particolare calore da uno, un mercante di lini, a casa del quale avevo preso alloggio dopo la morte di mio marito perché conoscevo sua sorella. Lì ebbi ogni libertà e ogni occasione di divertirmi in compagnia di chi volevo, perché la sorella del mio padrone di casa era una delle creature più matte e più allegre, e non così schiava della sua virtù come io in un primo tempo avevo creduto. Lei mi fece entrare nel mondo dell’allegra compagnia e fece anche venire in casa diverse persone, gente cui voleva fare una cortesia, a conoscere la bella vedova: così le piaceva chiamarmi, e quello diventò in breve tempo il mio soprannome per tutti. Ora, poiché notorietà e stravaganza vanno a braccetto, io ero festeggiata in modo bellissimo, avevo una quantità di ammiratori, e certi volevano farsi chiamare innamorati. Ma da nessuno di loro ebbi una sola proposta seria. Lo scopo al quale tutti quanti miravano mi era troppo chiaro perché io mi lasciassi tirare ancora in tranelli del genere. Ora per me la situazione s’era rovesciata. Ero io che avevo i soldi in tasca, e niente da dire a quelli lì. Ero stata imbrogliata una volta, al gioco che si chiama amore, ma la partita era finita. Ora ero decisa a maritarmi e basta, e a maritarmi bene o niente.

Mi piaceva, in verità, la compagnia degli uomini allegri e intelligenti, degli uomini belli e galanti, e stavo spesso con uomini così, e anche con altri; ma con l’esperienza mi accorsi che gli uomini più brillanti andavano sempre a parare verso le idee più squallide; s’intende, squallide rispetto a quel che avevo in mente io. D’altra parte, quelli che arrivavano con le proposte migliori erano le persone più squallide e antipatiche del mondo. Io non avevo nulla contro i mercanti, ma volevo un mercante che, almeno, fosse anche un po’ signore; un marito che, se gli saltava in mente di condurmi in società o a una festa, sapesse portar la spada e aver l’aria del signore come tutti gli altri; non volevo uno col segno dei lacci del grembiule sulla giacca, o il segno del cappello sulla parrucca; non volevo uno di quelli che sembrano aggrappati alla spada, quando gli capita di averne una, e sanno soltanto portare a spasso con il loro contegno l’immagine del mestiere che fanno.

Bene, alla fine trovai quella creatura anfibia, quell’essere fra terra e acqua che è un mercante gentiluomo. E, a giusto castigo della mia follia, fui presa proprio nella trappola che, posso dire, m’ero preparata da me. Dico questo perché nessuno mi trasse in inganno, lo ammetto, fu mio lo sbaglio.

Era anche lui un mercante di tessuti; la mia amica, infatti, aveva cercato di combinare tra me e suo fratello, ma quando s’era arrivati al dunque, era saltato fuori che, a quel che pareva, non si trattava di diventarne la moglie ma l’amante. E io rimasi ferma all’idea che una donna non ha bisogno di fare la mantenuta se ha i soldi per mantenersi da sola.

Così mi conservai onesta non per i miei principi ma per il mio orgoglio, non per la mia virtù ma per i miei soldi; anche se, come poi si vide, dovetti riflettere che meglio sarebbe stato farmi vendere dalla mia amica a suo fratello anziché vendermi da me, come feci, a un mercante che era in una volta sola avventuriero, gentiluomo, bottegaio e pezzente.

Ma, per la voglia che avevo di un signore, io mi avviai alla rovina nel modo più stupido che una donna può trovare. Infatti, il mio nuovo marito, capitato d’un tratto su un mucchio di soldi, si buttò in un tale mare di spese che tutto quel che avevo io, e che aveva lui prima di sposarmi, se pure si può dire che qualcosa avesse, non sarebbe stato abbastanza per durare nemmeno un anno.

Lui, per circa tre mesi, fu tutto preso di me, e quel che ne ricavavo io era il piacere di vedere spendere per me tutto quel denaro mio, e bisogna dire che facevo anch’io del mio meglio per spenderlo.

“Senti, mia cara,” mi dice lui un giorno, “andiamo a fare un viaggio di una settimana in campagna?”

“Oh, mio caro,” dico io, “dove vuoi andare?”

“Non m’importa dove,” lui dice, “ma voglio fare le cose in grande per una settimana. Andremo a Oxford,”, dice.

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