Authors: Sarah Langan
Suo padre aveva sentito dal suo capo che oggi i decessi erano stati molti, e che l'obitorio dell'ospedale era pieno. Morivano tutti allo stesso modo: con i linfonodi gonfi come gozzi, e i polmoni pieni di catarro. In sostanza, la città era nella merda.
Avrebbe dovuto dare in escandescenze. Dopotutto, era la ragazza più nervosa di Corpus Christi. Eppure non si sentiva affatto isterica. Aveva strillato per anni che ci si doveva preparare all'Apocalisse, e adesso che era arrivata, era rimasta senza fiato. Così fumava le sue sigarette, guardava il bagliore della brace accendersi poi smorzarsi, e pensava a Enrique, e a tutti quelli che erano morti, e al fatto che un vaccino avrebbe comunque funzionato solo sulle persone che non erano già infette. Desiderava che suo fratello fosse a casa.
Finì la sigaretta e la lasciò cadere nel barattolo vuoto di burro di arachidi che usava come portacenere. In quel momento, un sassolino volò dalla ghiaia del vialetto alla sua faccia. Lei trasalì.
E che cavolo?
Poi ne arrivò un altro. La colpì in pieno sul naso. Qualcuno la chiamava per nome con un bisbiglio teatrale: «Mad-e-line!».
Le si illuminarono gli occhi:
Enrique!
«Dove sei?» bisbigliò di rimando. Era proprio come Romeo e Giulietta. Aveva sempre desiderato che un ragazzo venisse a chiamarla alla finestra. Troppo figo. Le sembrava di essere in un film.
«Sono qui!» rispose Enrique, il che non aiutava. Ma poi lo vide in piedi sul portico, proprio sotto la sua finestra. Teneva sul palmo una manciata di sassolini. «Deficiente! Mi hai presa in faccia!» lo rimproverò, ma stava ridendo. Scese di corsa le scale e si precipitò alla porta, e dopo avere armeggiato con il nuovo chiavistello per qualche minuto, uscì e lo travolse con un abbraccio. Lui oscillò avanti e indietro come un salice, ma riuscì a non cadere.
Il sorriso di Maddie le attraversava tutto il viso. Era fantastico. Che emozione! Si sentì turbinare nel petto uno stormo di farfalle felici. Strinse forte Enrique da sopra la sua giacca di nylon. Sentiva il calore della sua pelle, le costole, e il battito del cuore. D'un tratto le venne da piangere, per quanto lo amava.
«Ho cercato di telefonarti ma ti sei dimenticato un'altra volta di caricare il cellulare» disse. «Mia mamma ha detto che sono ancora in castigo ma che se ricevi la cartolina possiamo vederci.»
Per un secondo o due lui non rispose. Le annusava i capelli, un gesto strano ma tipico di Enrique. Lui la annusava sempre. «È arrivata. L'hanno spedita prima che scoppiasse l'epidemia. Devo raggiungere Camp Lejeune nella Carolina del Nord entro domani mattina. Per telefono non sono riuscito a trovare nessuno, quindi non so se la quarantena sia obbligatoria anche in questo caso. Dovrei almeno provarci, altrimenti rischio l'arresto.»
Lei lo strinse più forte. Tanto che forse poteva riuscire a intrufolarsi nel suo petto, e restarci al riparo. Avrebbe vissuto dentro di lui, e sarebbero rimasti insieme per sempre. Non poteva lasciarlo andare. Non poteva permettere che accadesse.
«Dovevo vederti» disse lui.
Lei avrebbe voluto trovare una risposta memorabile. Dirgli quello che ci si aspetta dalle ragazze quando i loro uomini prendono commiato per andare in guerra. Avrebbe voluto dirgli che era coraggioso, e che lo amava. Ma non riusciva a pensare ad altro che ai suoi ricci bruni. Erano lunghi per un ragazzo, e nella Carolina del Nord lo avrebbero rapato a zero. Le fauci d'acciaio delle loro forbici non ne avrebbero lasciato traccia. Poi si ritrovò a piangere.
«Andrà tutto bene. Te lo prometto, andrà tutto bene.»
«Non mi resta nessuno, odio tutti in questa città.»
Lui le accarezzò i capelli. «Tra un anno ritorno. Andremo al college insieme» disse, ma lei sapeva che non era vero. Stava partendo, e si stavano lasciando. A quel punto cominciò a singhiozzare. Non voleva svegliare i suoi genitori, così premette la bocca sulla sua spalla, lasciandogli un cerchio umido sulla giacca.
«Perché lo hai fatto?»
«Non avevo scelta» rispose lui.
Fuori l'aria era tiepida, per essere settembre. Le sarebbe bastata una giacca leggera, ma non indossava che il pigiama di cotone. Il cemento freddo le pungeva i piedi scalzi. «Il tuo dovere l'hai fatto. Sei rimasto qui a curare tuo padre. Che bisogno c'era di arruolarsi? Era per allontanarti da me?»
«No» disse lui. «Mai.»
«È per la tua famiglia?»
«Forse» rispose lui.
Questo la fece piangere ancora di più, perché era troppo stupido. «Hai rovinato tutto!» disse.
Lui ingobbì le spalle, e spalancò le mani. «Sssc. Non fare così. Non voglio litigare, Mad-e-line.»
«Non mi interessa quello che vuoi tu!» Strillò abbastanza da svegliare i vicini, ma per fortuna le finestre della stanza dei suoi genitori erano chiuse. «Dico sul serio. Sei stato tu a rovinare tutto. Avremmo potuto essere felici, e tu hai mandato tutto a puttane. Vorrei non averti mai incontrato. E adesso parti e per te non sono abbastanza speciale nemmeno da sverginarmi.»
Lui scosse la testa, come non sapesse nemmeno da dove cominciare per risponderle. Poi si strinse nelle spalle, e rinunciò. «Ho paura» disse. Lei vide che anche lui aveva le lacrime agli occhi. Le venne voglia di prenderlo a calci. Che cazzata: arruolarsi nell'esercito perché la tua famiglia ti sta addosso. O forse perché sotto sotto sei convinto che devi sposare la prima ragazza che ti porti a letto, proprio come ha fatto tuo papà, e non ti senti ancora pronto a passare da una responsabilità all'altra, allora in mancanza di meglio te ne vai in Iraq. Bella soluzione del cazzo. Gli diede un pugno sul braccio. Era un pugno da femminuccia, anche se ci mise tutta la forza che aveva. Le aveva insegnato David a fare a pugni, ma suo fratello era una checca. Accidenti anche a lui! Gli diede un altro pugno.
«È giusto che tu abbia paura. Ti spareranno addosso.»
Il corpo di lui si era incurvato dalle spalle fino alle ginocchia, come schiacciato da un peso enorme. «Ormai è tardi. Non posso più cambiare idea. Se non parto, la polizia militare mi arresta.» Adesso piangeva anche lui. Lei non aveva mai immaginato che potesse ripensarci. Le fece un po' male, nello stesso punto dello stomaco dove prima ballavano le farfalle, sapere che sarebbe bastato così poco perché tutto andasse diversamente. Lui sprofondò il volto nei suoi capelli; più che altro, pensò Maddie, per non farle vedere che piangeva.
«Mi mancherai» disse. «Non so come spiegartelo... ma devo farlo.»
«Già.»
Così adesso piangevano entrambi: a qualcuno poteva anche sembrare romantico, ma a lei sembrava da scemi. Poi le venne in mente una soluzione, e subito si rasserenò. «Nella mia stanza» disse. «Stanotte. Adesso.»
Per un secondo lui non rispose, e lei aspettò che capisse. Poi annuì, come per sottolineare che non parlava a vanvera: diceva sul serio.
«Non rischiamo di svegliarli?» domandò lui. Da come gli si era raddrizzata la schiena, lei capì che l'idea gli piaceva. Capì anche con certezza di essere una delle cose dalle quali stava scappando. Certo, voleva stare con lei per sempre. Ma non voleva che sempre cominciasse ora.
«I miei genitori? Anche se fosse, cosa potrebbero fare? Separarci? Non lo scopriranno, e comunque non possono farci niente.» Prima che il buon senso si mettesse di traverso, lei girò sui tacchi ed entrò in casa. Lui non poté fare altro che seguirla. Si levò le scarpe da tennis, e lei gli mostrò i punti dove i gradini non scricchiolavano. Quando furono nella sua stanza, sedettero sul bordo del letto senza toccarsi. Lei si tolse la maglia del pigiama, un top viola senza maniche a motivi cachemire, in tinta con i pantaloni - non esattamente la tenuta che aveva sognato per la sua prima volta, ma bisognava accontentarsi. Le venne la pelle d'oca sulle braccia. Lui si guardò intorno nella stanza. Alle pareti erano appese stampe d'arte. I mobili erano di teak. Ma a prima vista, era anonima quanto una stanza d'albergo.
«Strano, eh?» domandò lei. Probabilmente lui si era aspettato candele, biancheria sexy, quantomeno un tabellone di sughero pieno di vecchi biglietti del cinema e fotografie. Ma da questo punto di vista lei somigliava a sua madre: il disordine le dava ai nervi.
Lui scosse la testa. «È proprio come me la immaginavo. Non sei stata tu a scegliere gli Hopper e i Rockwell, vero?»
«No. A me interessi solo tu, e i miei libri.»
«Sul serio?» domandò lui, fingendosi sorpreso. Non era una gran battuta, perché era vero. Lui la baciò sulle guance e poi sulla bocca. Lei immaginò che sentisse sulla lingua il sapore salato delle sue lacrime. Si ritrovarono nudi. Lui le si sdraiò sopra, ma appoggiandosi sui gomiti. Aveva la faccia seria, e a lei venne da ridere, ma si trattenne. Lui strappò il preservativo dall'involucro con i denti e lo infilò. Dall'espressione di sollievo che gli distese i lineamenti lei indovinò cos'era accaduto nel bosco, e sorrise. Allora non era stato perché la trovava troppo brutta.
Ecco fatto. Finalmente. Adesso era contenta.
Rimasero sotto le lenzuola; lei non voleva che le vedesse il corpo. Accadde in fretta, e il bacino ossuto di lui la pungeva, ma a parte quello non sentì troppo male. Lo abbracciò per stringerlo a sé e le parve che tutto fosse come doveva essere. Quando lui le ricadde al fianco si sorprese che fosse finito.
«Sei venuta?» le chiese.
«Forse?» disse lei. Non lo sapeva. Probabilmente no. E lui, era venuto? Sudava come se avesse corso, quindi probabilmente sì. Sembrava ubriaco. A lei venne da ridere, ma sapeva di non doverlo fare, così si limitò a sorridere.
«Ti ho fatto male?» domandò lui.
«No, mi è piaciuto...» Sarebbe stato lontano per un anno, non valeva la pena dirgli la verità. «Mi sono esercitata con un dito, forse è per quello che non mi ha fatto male. Ti sembra una cosa da matti?»
Lui non disse niente, ma sgranò gli occhi. Lei temette di avere esagerato, di averlo convinto alla fine che fosse fuori di testa. Ma poi la sua espressione si raddolcì e gli scappò da ridere. Lei gli coprì la bocca con una mano per non fare rumore. «Per te? Per te non è da matti» disse. Poi aggiunse: «Ti amo, Madeline».
«Anch'io. E un po' pazza sono, ma di te» gli disse. «Ti ha dato fastidio quando ti ho dato del mangia-tacos?»
Lui impiegò un secondo a rispondere. «A te dà fastidio che lo sia?»
«No.»
«Allora nemmeno a me» disse lui, e lei provò un tale sollievo che ricominciò a piangere. Lui non disse niente per consolarla; cosa poteva dirle? Che un giorno si sarebbero sposati? Che le avrebbe scritto tutti i giorni, e che avrebbero frequentato la Brown insieme? La vita aveva giocato un brutto tiro a tutti e due. Lei avrebbe voluto credere che l'amore l'avrebbe avuta vinta, ma sapeva che non era così. La stanza era immersa nel buio, e lei lo strinse forte.
Dopo un po' le lacrime le si erano asciugate. Sentiva le gambe stranamente indolenzite, e il suo sudore di ragazzo le si era incollato addosso, seccandosi sulla pelle. Gli occhi si abituarono al buio e lei riuscì a distinguere le stampe incorniciate che sua mamma le aveva comprato al Museo di Portland (un uomo alla pompa di benzina, una ragazza con i codini e un occhio nero nell'ufficio del preside), e le sue pantofole rosa a forma di elefante che avevano preso il posto dei suoi animali di pelouche, il Signor-Sinistro-Defunto e il Signor-Destro-Defunto, che spuntavano da sotto il letto.
Aveva fatto sesso con un ragazzo che non avrebbe sposato. Si era innamorata di lui, pur sapendo che non avrebbe mai funzionato. In quel momento le sembrava che ne valesse la pena, perché lo stringeva tra le braccia. Ma come si sarebbe sentita quando fosse partito? Non era vero quello che dicevano. Adesso che non era più vergine lei si sentiva diversa. Si sentiva triste.
Non dormì a lungo. Un suono lacerante la svegliò da un sogno in cui nuotava tra le onde di un oceano agitato. «Aiuto!» gridava un uomo nel silenzio. Le ci vollero alcuni secondi prima di capire che era sveglia, e che qualcuno stava urlando fuori dalla sua finestra.
Si precipitò al davanzale. Fuori era tutto buio, e il grido era svanito. C'era un'auto della polizia parcheggiata di fronte alla casa dei Walker, ma il lampeggiante era spento. Lì accanto un gruppo di persone delle quali non distingueva le facce si era radunato in mezzo alla strada. Erano curvi sopra qualcosa, e lei ebbe un brutto presentimento, come se avesse deglutito un sorso dell'acqua gelida dell'oceano. Si muovevano in modo strano, sgraziato. La parola che le venne in mente fu «omicidio».
Qualcosa le sfiorò la spalla e lei trasalì, ma era solo Enrique. Si era infilato i jeans, e si strofinava il ventre piatto. Lei ci appoggiò una mano, perché aveva bisogno di sentirne il calore.
«Che succede laggiù?» domandò. Era ancora mezzo addormentato.
Lei indicò la strada. «Non lo so. Qualcosa di brutto, però.»
Lui scosse la testa. «Non vedo niente. È tutto buio.»
«Dovremmo chiamare la polizia. C'è il coprifuoco. Non dovrebbe esserci nessuno in giro» disse lei. E poi aggiunse, anche se avrebbe preferito non ammetterlo: «Quell'auto della polizia è vuota? Credi sia successo qualcosa ai poliziotti?».
Lui non le era più accanto. Era seduto sul letto, si allacciava le scarpe da tennis. Lei lo seguì a ruota e si infilò il pigiama viola. Cercò di non farlo vedere, ma le tremava il mento. «C'era qualcuno fuori che gridava aiuto» disse. Poi le venne in mente la cosa ovvia da fare. Prese il cellulare e fece il 911. Uno squillo. Un altro. Un altro ancora.
Il telefono continuava a squillare. Alla fine un messaggio registrato la informò che tutti gli operatori erano occupati, e il tempo di attesa era di trenta minuti. «E se qualcuno fosse in pericolo di vita?» sibilò lei.