Virus

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Authors: Sarah Langan

 

SARAH LANGAN

VIRUS

Lasciatevi contagiare dalla paura

(Virus, 2007)

 

Per J. T. Petty

 

 

«Le crisi catalizzano il cambiamento.»

Virus
,
Deltron 3030

 

 

Prologo

Inverno

 

D'inverno, il buio ti sorprende. Non ho ancora finito di cenare, e il cielo è già nero. L'elettricità non c'è più, così la sera mi oriento alla luce delle candele. La fiamma getta ombre che prendono forme strane e familiari. Gli animali sono tutti morti, anche gli scoiattoli e i conigli. A pensarci bene, non sento più nemmeno i grilli. Attraverso le fessure delle finestre e il camino non passa che l'ululare del vento e, in sottofondo, gemiti quasi impercettibili.

Ma cominciamo dal principio: c'era una volta.

C'era una volta Corpus Christi, una cittadina sonnolenta, serena. Le sue mattine erano tranquille, disturbate solo dal suono dei cucchiaini che giravano il caffè e delle radiosveglie sintonizzate a basso volume sul notiziario. La nostra era una comunità molto unita e affiatata, e d'estate i nostri bambini scorazzavano liberi. La notte i più piccoli giocavano a nascondino sui prati davanti alle case mentre i più grandi si portavano di nascosto la birra sulle sponde del fiume. Pensavano tutti di averla fatta franca, come se il resto di noi non ricordasse con tenerezza quei riti di passaggio.

Diversamente dal resto del Maine, dove si trovavano code solo agli uffici di collocamento, Corpus Christi prosperava. Il nostro ospedale aveva il miglior reparto oncologico della costa orientale, e attirava medici anche dal Sud, persino da New York. Eravamo scienziati e banchieri, artisti e insegnanti, e i nostri negozi erano tutti a gestione familiare. Ogni anno, la Wal-Mart tentava di mettere radici lungo i margini della nostra autostrada, ma ogni primavera e con voto unanime noi gettavamo sale sul terreno.

Eppure, persino prima di quella brutta storia di James Walker, i segni c'erano. Quella primavera, un incendio alla cartiera Clott nella vicina Bedford aveva spinto in cielo nubi sulfuree che ci fecero bruciare gli occhi per giorni e giorni. Da allora la chimica dei boschi cambiò, e i nostri alberi cominciarono a morire. Sebbene non ci fossero code di disoccupati, i tagli nei finanziamenti statali e le cause legali anno dopo anno cominciarono a lasciare il segno, e assistemmo al declino del nostro ospedale. Le imbiancature di fresco, le tegole nuove per i tetti, le ammaccature sulle carrozzerie delle auto da rimettere in sesto, tutto venne procrastinato all'anno dopo, e poi a quello successivo, e talvolta a quello dopo ancora. Come contagiati dal malessere economico del Maine, comprendemmo che presto sarebbero arrivati i licenziamenti e i fallimenti dei negozi. Ma persino allora, i nostri cartelli di benvenuto erano lucidi e festosi, le nostre strade asfaltate, i nostri prati curati e verdi. Eravamo orgogliosi del nostro passato, e ci aspettavamo solo il meglio dal nostro futuro.

Ma i segni c'erano. L'estate prima di James Walker, di notte mio marito e io smettemmo di dormire. Io presi a sedermi in cucina con una tazza di tè Lipton al latte in attesa che il cinguettare degli uccelli annunciasse l'arrivo dell'alba. Sentivo qualcosa riscuotersi dentro di me, in attesa di aprire gli occhi, come se il mio corpo sapesse ciò che la mia mente non riusciva a intuire. Se ci ripenso con attenzione, riesco a individuare segni di ogni sorta. Durante una vacanza in famiglia, ricordo di aver visto mia figlia avventurarsi a nuoto oltre il frangersi delle onde. Non furono le sue mani, ma i suoi capelli a sprofondare per ultimi. Esitai prima di tuffarmi a soccorrerla. Forse una parte di me sapeva ciò che la mia mente non poteva indovinare, e aveva desiderato risparmiarmi lo strazio a venire.

Ma sto divagando.

Ho una storia da raccontarvi. Perdonatemi se vi sembrerà che racconti cose che non potrei sapere. Questa è una piccola città, e le voci corrono. E poi, i morti parlano.

Avvicinatevi dunque, come dicevo ai bambini quando cominciavo a raccontare una fiaba.

Avvicinatevi.

 

 

Parte Prima

CONTAMINAZIONE

 

 

1.

Dove vai, dove sei stata?

 

«George?» Lois Larkin faceva l'appello nella sua quarta elementare. Aveva la voce roca, e teneva il registro vicino al viso. Era un soleggiato martedì mattina di settembre, e l'orologio del campanile non aveva ancora battuto le nove.

«Mmm» rispose George. Masticava un pastello rosso.

Lois alzò gli occhi umidi dal registro. «George smettila, ti fa male. Sci...» Poi fece un respiro profondo, proprio come le aveva insegnato il logopedista, e si corresse: «Sputa».

George si levò il pastello di bocca. Tutta la parte superiore era sparita, e lui aveva i denti coperti di cera rossa. Lois scosse la testa. George Sanford: comunque una creatura di Dio, se non proprio la più brillante.

Lois Larkin aveva ventinove anni, ed era maestra di quarta elementare da quando aveva fatto ritorno a Corpus Christi sette anni prima. Aveva un fisico snello ma formoso - quello che gli assidui del Dew Drop Inn avrebbero definito «uno schianto». Quando i maschi e persino le femmine della sua classe sognavano a occhi aperti guardando fuori dalla finestra, di solito fantasticavano di accarezzare i suoi lunghi capelli neri, e di sentire il profumo di vaniglia del suo respiro.

I bambini adoravano Lois. Gli ubriachi fischiavano allegri al suo passaggio. Persino gli animali accorrevano da lei. Lois era adorabile, ad eccezione di un dettaglio. La distanza che separava i due incisivi superiori era così ampia che avrebbe potuto infilarci una matita. Aveva tentato di chiuderlo sopportando l'apparecchio per sei anni durante le medie e il liceo, ma neanche un mese dopo aver tolto la gabbia di metallo dalla bocca i suoi denti avevano abbandonato il nuovo approdo, e la fessura si era riaperta. Quando era emozionata biascicava, e dalla fessura spruzzava saliva che atterrava come un flagello indifferente in faccia ad amici e nemici.

«Jamesc
Walker?»
domandò
Lois.

«Presente», rispose James.

«Smettila, James. Non scalsciare... Scalciare.»

«Scì, scignorina Loisc» le fece il verso James. Un sorrisetto arrogante gli si allargò da un orecchio all'altro. Il primo istinto di Lois fu di tirargli il registro in testa, ma si trattenne e riprese l'appello.

«Caroline?»

«Presente, signorina Lois!» Caroline sventolò entrambe le mani in aria e si agitò sulla sedia come se dovesse pisciare. A Lois venne da pensare che forse non le piacevano davvero i bambini.

Si asciugò gli occhi con un fazzoletto di carta già zuppo. Fece un respiro profondo. Si sforzò di scandire le parole. «Bambini e bambine, ho una coscia che si chiama allergia. Sapete cos'è? È quando fai molti sctarnuti e ti lacrimano gli occhi. A qualcuno, come a Johnnie, viene per i cani. Nel mio caso, la colpa è delle muffe e dei cespugli di ambrosia. Non sto piangendo. È tutto chiaro?»

I bambini annuirono. Caroline alzò la mano e gridò: «IO! IO!».

«Scì, Caroline.»

«Io sono allergica alla penicillina. È un antibiotico che serve, tipo, per l'Aids.»

Lois annuì. «È un'allergia grave, Caroline, ed è bene saperlo. Ora, Kerry è prescente?»

«Sì.»

«Alex Fulbright?... Michael Fulbright?»

L'appello proseguì.

In realtà, Lois aveva mentito. Non soffriva di nessuna allergia. Piangeva davvero. Ma oggi era il gran giorno della gita scolastica, e per quanto avesse desiderato starsene a casa, non c'era stato il tempo di chiamare una supplente. Così si era ritrovata in classe, a biascicare l'appello e pregare che qualche moccioso come James Walker non alzasse la mano per richiamare l'attenzione di tutti sull'evidenza: che la maestra non portava più il suo anello di fidanzamento.

Pensandoci bene, quanto era accaduto non l'aveva sorpresa. Una parte di lei aveva sempre saputo che non si doveva fidare di Ronnie e Noreen. Ogni volta che l'avevano informata dell'ennesima decisione di desolante stupidità, come spendere lo stipendio in biglietti della lotteria invece che per l'affitto, le prove erano state lampanti come la fessura tra i suoi denti: quei due erano degli inetti. Ma poi se ne dimenticava, perché la casa di Ronnie era un porcile che puzzava di latte inacidito, e chi altri se non lei si sarebbe ricordato di spalancare le finestre perché non gli venisse il mal di testa? Perché certo Noreen era cattiva quanto una Joan Crawford impasticcata di anoressanti, ma sotto sotto aveva un cuore d'oro, giusto? Solo che bisognava cercarlo con la lente d'ingrandimento. D'altra parte, nemmeno Lois era perfetta. Parlava con la lisca, faceva collezione di insetti, e nei giorni prima delle mestruazioni faceva spuntini di hamburger crudo, per la miseria.

E poi, non era colpa loro se la sua vita era uno schifo. Non avrebbe mai dovuto tornare a Corpus Christi dopo il college. All'Università del New Hampshire era stata felice. Al contrario del liceo, dove si era sentita un gigante con le ossa sproporzionate, gli studenti del college la invitavano fuori. Si era fatta degli amici che condividevano la sua passione per le domande di scienze del Trivial Pursuit, l'edizione Genius. Aveva smesso di coprirsi la bocca quando parlava, perché aveva scoperto che bastava scusarsi, e la gente non si offendeva per l'occasionale spruzzo oceanico.

Ma l'inverno dell'anno di laurea, suo padre aveva percorso in auto la strada che collegava Corpus Christi a Bedford. La sua cinque porte Nissan era slittata sul ghiaccio nero, e si era ribaltata prima di atterrare nel bosco. Il cruscotto si era accartocciato, fracassandogli entrambe le gambe. Era accaduto la notte tardi, e il suo corpo congelato non era stato rinvenuto che la mattina dopo. Nessuno era riuscito a spiegare perché avesse lasciato il tepore del letto dove sua moglie Jodi dormiva ancora. Non aveva un'amante segreta, e non aveva né il vizio del fumo né quello della bottiglia. Quando l'autista dello spazzaneve lo aveva trovato, aveva ancora la cintura allacciata. Anche con un paio di gambe rotte, quasi tutti sarebbero riusciti a trascinarsi fuori dalla portiera aperta per cercare aiuto, ma non Russell Larkin. Gli avevano trovato il cellulare in tasca, perfettamente attivo, ma lui non aveva fatto nemmeno una chiamata. No, non si era trattato di un suicidio. Gli era solo venuta voglia di fare un giro, di sentire l'aria notturna e guardare le stelle. Sì, si era rassicurata Lois, probabilmente non si era trattato di un suicidio.

Dopo il funerale, i suoi voti erano precipitati come lastre di granito in una cava. Era riuscita a laurearsi a stento. Non aveva nemmeno compilato le domande di dottorato che aveva in programma di spedire, né fatto progetti per un lavoro estivo. «Non mi ami più?» le aveva domandato Roddy Chase, suo fidanzato da due anni, la sera prima di marciare, con il tocco e la toga, lungo il prato di Dimond Hill nel cortile del college. Erano seduti sui gradini di pietra fuori dal dormitorio di lei, e Lois sapeva che avrebbe dovuto dirgli che la sua voce profonda le faceva tremare le ginocchia, ma che in quel momento in lei non c'era posto per l'amore. C'era posto solo per la faccia di suo padre, abbandonata alla forza di gravità dentro la bara aperta della camera ardente. Le spalle di Roddy si erano ingobbite mentre si allontanava, come se la punta della sua spina dorsale fosse diventata gelatina, e anche quello le aveva ricordato suo padre. Senza nemmeno rendersene conto, si era ritrovata a vivere di nuovo a casa, a lavorare come supplente alla scuola elementare, e a seppellire i vuoti di gin Gordon's di sua madre sotto quelli dell'acqua minerale nel cassonetto del vetro da riciclo.

Corpus Christi era una cittadina graziosa, e ideale per i bambini, ma se volevi fare qualcosa che non fosse lavorare nell'ospedale o spendere il denaro dei tuoi genitori, dovevi trasferirti in una grande città. Dopo qualche mese Lois aveva cominciato ad annoiarsi, così una sera di ritorno dal lavoro aveva fatto una capatina al Dew Drop Inn. La sua idea era di sedersi in un angolo a sorseggiare un Cosmopolitan alla mela per un'oretta, e poi tornarsene a casa. Se le cose fossero andate secondo i programmi, la sua vita avrebbe potuto essere diversa. Sarebbe potuta tornare al college, o almeno fare domanda per un incarico di insegnante di biologia in un liceo. Ma la vita non va mai come dovrebbe.

Al Dew Drop Inn era incappata in una vecchia compagna di liceo, Noreen Castillo. Noreen era infermiera nel reparto geriatrico dell'ospedale di Corpus Christi. Era scaltra e con un senso dell'umorismo crudele. Al liceo diceva cose del tipo: «Quei jeans ti fanno il culo grosso», oppure: «Le storie che racconti sono buffe, ma le tiri troppo in lungo. La gente smette di ascoltarti e tu ci fai una figura da scema. Te lo dico perché sono tua amica». Noreen era là, appollaiata al bancone del Dew Drop Inn, e Lois sapeva che avrebbe dovuto sorriderle e tirare dritto, perché quella ragazza era un reattore nucleare gonfio di guai. Ma si sentiva sola, e Noreen era compagnia. Quella sera avevano bevuto qualche cocktail insieme, e così anche la sera dopo. Presto la cosa era diventata un'abitudine.

Anche Ronnie Koehler e i suoi amici frequentavano il Dew Drop Inn. Il record di ventuno home-run segnati da Ronnie nella stagione del 1996 era ancora imbattuto a Corpus Christi, e in virtù di quello TJ Wainright gli offriva gratis una birra alla spina ogni tre. La popolarità di Ronnie al liceo non gli aveva montato la testa. E non si era nemmeno inacidito, cosa che Lois trovava davvero ammirevole, considerato che tutti pensavano sarebbe diventato un giocatore professionista. Quando la fidanzatina di Ronnie al liceo aveva dato di matto e lo aveva lasciato per andarsene in un ashram a Woodstock, Noreen gli aveva dato la caccia come una scimmia ingrifata. Si ubriacava e gli si abbandonava su una spalla come a indicare che per liberarsene avrebbe dovuto portarla a casa di peso. Ma era stata Lois che Ronnie alla fine aveva invitato una sera al cinema.

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