Authors: Sarah Langan
«Mamma?» aveva domandato. La camicia da notte di cotone bianco le si era arrotolata intorno alla vita, e lui notò che aveva le gambe ancora sode malgrado ne facesse scarso uso. I suoi capelli neri pendevano in anelli umidi di sudore. Gli prese la mano e se la appoggiò sul seno: «Secondo te è un nodulo?».
A quei tempi lui pensava costantemente alle ragazze, sebbene non ne avesse ancora toccata una. A scuola si eccitava così tanto anche solo guardandole che, per impedirsi di esplodere, doveva riempirsi la mente di immagini di profughi cambogiani e delle unghie dei piedi di suo nonno mangiate dai funghi. Aveva cominciato a temere di essere un pervertito, perché quando quella culona della sua insegnante di biologia cinquantenne si metteva in piedi dietro la cattedra o anche soltanto gli sorrideva, il suo corpo scattava sull'attenti, e lui fantasticava di scaraventarla contro lo schienale di ferro della sedia e saltarle addosso.
E ora eccolo là, con la mano su un seno di sua madre. Qualcosa gli si era mosso sotto le dita, e da principio aveva pensato che fosse un insetto che strisciava. Non era un insetto. Era il capezzolo che si induriva. Vergognandosene, anche lui si sentì diventare duro. «Lo senti anche tu, Fennie? Secondo te è un nodulo?» domandò lei. Lui la guardò negli occhi e lei ebbe un tremito; sapevano entrambi che non c'era nessun tumore.
Sara e Ben vivevano ancora a Wilton, Connecticut. Ben non l'aveva mai lasciata, e Sara non era mai morta. Telefonavano una volta la settimana, e se capitava a Fenstad di rispondere al telefono passava il ricevitore a Meg, con la scusa che lei era più brava a chiacchierare. Per gran parte del tempo, Fenstad credeva di avere perdonato a Sara quel piccolo accesso di follia. Altre volte, quando si svegliava da un sogno inquieto sentendo ancora nell'aria l'odore di cavolo fermentato, sapeva che non lo aveva fatto. Ancora oggi, ogni volta che qualcuno lo chiamava «Fennie», i brividi gli correvano lungo la schiena come fili ad alta tensione che si contorcono sull'asfalto.
Dopo l'episodio di Sara con la sua camicia da notte sottile, qualcosa dentro Fenstad si era spezzato. Da piccolo era stato un bambino emotivo e dalla lacrima facile, ne versava praticamente a pozze dovunque andasse, come la bava di una lumaca. In Africa la gente moriva di fame, e lui piangeva. Suo padre alzava la voce, e lui aveva un singulto. Un compagno di scuola gli chiedeva perché non festeggiasse il Natale, e lui si chiudeva in camera per tutto il fine settimana. Qualcosa si ruppe, e gli prese una depressione tale che faticava ad alzarsi dal letto. Non riusciva a leggere, né a dormire, né ad allacciarsi le scarpe senza soffocare di lacrime. La cosa più allarmante fu che cominciò a immaginare che la moquette nella stanza dei suoi genitori fosse zuppa di sangue. Ogni volta che ci camminava, nella sua mente quelle fibre fitte facevano un rumore di fradicio e i suoi piedi sguazzavano.
Non si era mai ripreso da quel crollo. Solo dopo un po', un interruttore dentro di lui era scattato e la depressione finita. Al suo posto era subentrata la freddezza. Da allora la vita si era fatta più facile. Il bruciore allo stomaco che in seguito si sarebbe auto-diagnosticato come ulcere giovanili era guarito. Fenstad era uno degli unici tre residenti ebrei in una città bianca e protestante, ma smise di temere che i ragazzi che lo chiamavano 'kosher' intendessero qualcosa di peggio, come 'giudeo'. Invece metteva loro un braccio sulle spalle, faceva un sorriso tutto denti, e diceva cose del tipo: «Altroché, cazzo. E ne sono fiero». Invitò la ragazza più carina del corso di storia americana al ballo d'inverno delle matricole. Si chiamava Joanne Streibler. Dopo il ballo gli permise di leccarsi l'indice e di esplorare le sue parti morbide, vellutate.
Certo, non sentiva le cose con la stessa intensità di un tempo. Non esultò la prima volta che lui e Joanne fecero l'amore nel furgone Chevy G20 di suo cugino. Non saltò dalla gioia quando lo accettarono ad Harvard, né quando Meg promise di amarlo, onorarlo e rispettarlo davanti al giudice di pace dello Stato del Massachusetts. Ma era contento, e tanto bastava. Inoltre, Meg provava emozioni abbastanza intense per entrambi.
Sapeva di avere i sintomi di un disturbo asociale della personalità. Non piangeva mai per le persone come Lila, né restava sveglio di notte a preoccuparsi per loro. In circostanze diverse avrebbe potuto diventare un criminale, un ladro, persino un sadico. Quando aveva scoperto della relazione di Meg aveva provato il desiderio di ucciderla, e sospettava che in lui quell'istinto fosse perdurato più a lungo che in una persona normale. Si era immaginato di seppellirla viva sotto le fondamenta della casa, di rinchiuderla negli ottocento gradi dell'inceneritore di scorie dell'ospedale, di strangolarla con il suo filo di perle mentre lei implorava pietà, di tutto. Ma il punto era: non l'aveva uccisa. L'aveva perdonata.
Era banale e un po' infantile che incolpasse sua madre per quello che era diventato, di avere fatto il medico per salvarla, per salvare se stesso da incubi così nitidi che ancora adesso, nei suoi sogni, sentiva l'odore del cavolo fermentato, percepiva il sangue sotto i piedi, ma tante. Non si possono scegliere le proprie origini, né tantomeno si può scegliere la direzione verso la quale ti orientano.
Dunque aveva cose di cui lagnarsi, e forse era freddo, ma faceva del suo meglio con ciò che la natura gli aveva dato. E per fortuna la natura gli aveva dato molto più di quanto avesse concesso a Lila Schiffer.
«Ieri alla tv» stava dicendo Lila, «l'ospite del dottor Phil era un tizio che parlava delle diete a basso contenuto di carboidrati. Diceva che bisognerebbe mangiare solo carni rosse. A me non sembra logico, ma se l'hanno detto dal dottor Phil dev'essere vero.» Seguì con le dita le pieghe dei jeans lungo le gambe. Poi riprese. «L'autunno mi fa ingrassare...» Mentalmente lui emise un gemito. Era tornata di nuovo sull'argomento del cambio di stagione. Si domandò come fosse riuscita a parlarne per tante sedute senza mai capire che ciò di cui si rammaricava in realtà era lo sbiadire della sua bellezza. «In autunno arrivano le mosche. Detesto gli insetti. A volte provo un tale desiderio di farli sparire che sono tentata di mangiarli.»
A Fenstad sfuggì un filo di saliva, e si pulì l'angolo della bocca con la manica della camicia. Pensò a Meg che lo aveva definito freddo. La puttana aveva spalancato le gambe per il bastardo più squallido di Corpus Christi, e si comportava come se fosse stato lui a fare qualcosa di male. Pensò alla tortura cinese, l'acqua che sgocciola, sgocciola, sgocciola fino a farti impazzire. Pensò a una stanza malsana con una lussuosa moquette blu zuppa di sangue, e al suono che avrebbero fatto le sue scarpe mentre ci camminava sopra.
Lila sorrise. Lui si domandò se faceva così anche a casa con i figli, una strega che interrompeva la pace dei loro sogni con il suo piagnucolare. Proprio come Sara Wintrob. Per un momento odiò Lila, e sua moglie, e sua madre, e soprattutto Freud.
Alzò lo sguardo e si accorse che Lila aveva smesso di parlare. Attese che ricominciasse, ma non accadde. Forse si era stancata lei stessa delle sue chiacchiere?
Fenstad si schiarì la voce. Era il momento di finirla con le stronzate. «Sta evitando di dirmi qualcosa. Mi racconti com'è andata questa settimana» disse.
Lei inclinò la testa di lato, e ci fu un altro silenzio. Non l'aveva mai vista tanto castigata. Di solito il suo abbigliamento si atteneva rigorosamente a quello dei bar dell'autostrada: top aderenti e minigonne. Ma oggi portava una camicia a maniche lunghe abbottonata sopra la riga del reggiseno, e jeans con la vita abbastanza alta da celare la farfalla che aveva tatuata sul fianco.
L'orologio a muro ticchettava. Lui sapeva che avrebbe dovuto prestarle attenzione, e invece pensava a Meg. Quest'anno le cose erano andate alla grande. Certo, di tanto in tanto aveva la luna storta, ma per gran parte del tempo lui si era convinto che la loro vita insieme fosse tornata sul binario giusto. E invece era arrivato l'epiteto del pesce. Lui detestava quando gli davano della trota. E poi, cosa avrebbe dovuto significare: che non era bravo a letto? Che lei aveva simulato per, poniamo, vent'anni?
«Dunque» disse Lila, «ci sono ricascata, ma solo un po'.» Scrollò le spalle e sorrise, come se l'avessero sorpresa a compilare un questionario a penna invece che a matita. «Mi stavo lavando i denti, e ho pensato che potevo prenderne solo un assaggio, ma, be'...» disse.
«Ha di nuovo bevuto il Robitussin?» domandò lui.
Lei annuì. «Per la tosse e il raffreddore. Almeno non contiene zucchero.»
«Quanto?»
«Mezzo flacone. Ma poi l'ho vomitato.» Il Robitussin contava circa venticinque gradi. Era praticamente innocuo, per quanto uno scotch liscio avesse un sapore decisamente migliore.
«Può descrivere cosa ha fatto scattare la ricaduta?» domandò lui.
Lei si mordicchiò il labbro come se ci stesse riflettendo. Lila aveva recentemente divorziato da un uomo che non le aveva mai permesso di muovere un dito, pagare un conto, nemmeno scegliersi un abito per le serate di gala del golf club di Corpus Christi senza la sua autorizzazione. Era una pallina da ping pong sperduta nell'oceano, alla disperata ricerca di un approdo. I suoi figli la schernivano e le davano dell'incapace. Le sue coetanee non avevano mai accettato questa donna meno istruita di loro, che tuttavia consideravano una rivale per quella sua bellezza appariscente. Suo marito si era risposato con una donna di rappresentanza più giovane. E lei adesso si era messa a bere lo sciroppo per la tosse perché temeva che i vicini avrebbero sparlato se avesse comprato bottiglie di alcolici veri al negozio di liquori del quartiere.
Nel giro di un anno avrebbe incontrato un altro uomo identico a quello che l'aveva appena lasciata, solo più vecchio, e con un po' di fortuna lo avrebbe sposato. Con un ulteriore colpo di fortuna lui sarebbe morto di vecchiaia o di infarto prima di avere il tempo di rimpiazzarla. E Fenstad avrebbe anche potuto tentare di dimostrarle che non era questo il modo di vivere, ma lei non gli avrebbe mai creduto. Alla fine il meglio che poteva fare era tramutare il suo vizio per lo sciroppo in un rigoroso programma di jogging finché non fosse arrivato un uomo nuovo a dirle ancora una volta quant'era carina.
Lila sorrise seduttiva, e lui si domandò:
Chi è la donna che nascondi dietro quel sorriso?
Era quella la domanda che lo spingeva al lavoro ogni mattina. L'enigma delle persone. La cosa celata sotto gli strati della finzione, scrostati nel corso delle settimane e dei mesi e degli anni di terapia fino a quando le loro ipocondrie, le loro nevrosi, le loro ferite autoinflitte non facevano più nessuna differenza.
Chi sei tu?
si domandava quando vedeva queste persone. Era una domanda, a essere perfettamente franco, che spesso poneva anche a se stesso.
«È stata colpa del telegiornale» disse lei.
«Il telegiornale?»
«Sì. Stavo guardando
Entertainment Tonight
e c'era la storia di un cieco.»
Lui annuì.
«Aran e Alice avrebbero dovuto fare i compiti ma non li stavano facendo. Sapevo che avrei dovuto rimproverarli ma stavo guardando la trasmissione sul cieco. Abitava a Seattle, e poteva andare in giro solo accompagnato dal suo golden retriever. Io preferisco i segugi, ma sa dove voglio arrivare.»
Lui ricordò il sogno per un momento, il cane che abbaiava, ma lo dimenticò all'istante. «Mi coglie alla sprovvista. Non so proprio dove voglia arrivare.»
«Il cane guida. Lo hanno soppresso perché era troppo vecchio per prendersi cura del cieco. Si sono sbarazzati di lui come se niente fosse, mi spiego? Questo mi ha fatto pensare al mio primo cane, e a come lo avessero abbattuto perché aveva morso mio fratello Tom. Noi siamo cresciuti a Bedford, lo sapeva? Nel parcheggio delle roulotte. Di solito alla gente non lo dico. Me ne sono andata solo quando ho sposato Aran Senior.
«Così mi sono messa a pensare al cane, e alla pioggia, e a come sia sempre tutto bagnato a Seattle. E a mio fratello e a quanto mi manca. È morto nell'incendio di Bedford. Era asmatico. Comunque, ho detto ai ragazzi che andavo a fare un bagno e loro hanno risposto 'Come ti pare, Lila' perché mi chiamano sempre per nome anche se è una cosa che odio.
«E stavo guardando il rasoio, sa? Quello da barbiere che avevo regalato per scherzo ad Aran Senior perché era un oggetto d'antiquariato e a lui piace quel genere di cose, o almeno gli piaceva. Quando se n'è andato non si è portato via niente. Immagino facesse finta di apprezzare i regali che gli facevo. Forse non andavano bene, quei geodi di cristallo tanto graziosi e quella macchina da scrivere Underwood del 1917. Li trattava come se non valessero niente. Poi mi sono ricordata che bisogna tagliare lungo la vena, come quando si taglia il legno. E l'ho fatto.»
Arrotolò la manica sinistra della sua camicetta di seta bianca. Aveva il polso bendato alla meno peggio con nastro adesivo marrone e garza. La pelle esposta tutto intorno era rossa e infiammata.
A Fenstad si strinse lo stomaco. Per la prima volta da molto tempo fu deluso di se stesso. L'aveva tradita. Si era seduto in scranno a giudicarla, questa donna inutile gettata via dal marito come un preservativo usato. Aveva dimenticato che avrebbe dovuto essere il suo difensore. Avrebbe dovuto essere suo amico.
«Solo su questo braccio.» Lei sorrise. «Non mi ci sono accanita troppo...»
«Vada avanti» disse lui.
«Comunque, l'acqua è diventata tutta rosa, e mi sono messa a pensare a cosa sarebbe accaduto quando mi avrebbero trovata. I ragazzi probabilmente non avrebbero notato nulla fino a quando non fossero venuti a lavarsi i denti. Avrebbero telefonato a lui per non buttare giù la porta. A me sono più affezionati, ma è di lui che si fidano. Così ci sarebbero volute alcune ore prima che lui mi trovasse. Il sangue a quel punto si sarebbe depositato sul fondo della vasca. Tutto raggrumato come una sbobba. Incollato anche sui capelli. Si sarebbe coagulato. Ma d'altra parte, la sua nuova moglie è una rossa...» I suoi occhi erano frammenti opachi di carbone, la sua voce era priva di emozione. Era questa la vera Lila, quella che aveva aspettato di incontrare per un anno intero. Aveva fatto breccia, finalmente.