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Authors: Sarah Langan

«Molly!» gridò. «Ora. Il nove-uno-uno. Subito.» Molly sbatté le palpebre ma non si mosse. Con la coda dell'occhio Meg vide Rich, il padre di Lina Varvaran, prendere il cellulare dalla tasca. Insieme a sua figlia si spostò all'ingresso della biblioteca cercando una ricezione migliore.

I polpastrelli di Albert erano pieni di tagli. Il sangue ci si era convogliato con una forza tale da fargli scoppiare la pelle. Ansimava ed era madido di sudore. Lentamente il suo corpo si lasciò cadere sulla sedia, e lei sperò che avesse esaurito le forze. Decise che non costituiva più un pericolo e gli appoggiò una mano sulla fronte per controllare se avesse la febbre. La pelle era appiccicosa e fredda, ma il tocco di lei lo calmò, e si rilassò visibilmente. «Il prurito è come avere degli insetti sulla pelle?» gli domandò.

Albert scosse la testa. Aveva gli occhi colmi di lacrime. In quel momento Meg provò per lui una compassione enorme. Come se in qualche altra dimensione esistesse un Albert Sanguine perfettamente a posto che costruiva ponti e tirava su una famiglia, mentre in questa non gli erano toccate che carte sfortunate.

Aveva le pupille così dilatate che gli occhi sembravano neri invece che nocciola. «Mi lasci andare. La prego, signora Wintrob» mormorò, così in fretta che sembrò un'unica esclamazione, uno dei suoi tic.

«Hai bevuto oggi? Hai preso il tuo pane?» domandò lei. «Hai bisogno di bere qualcosa?»

Lui scosse la testa. «Prude troppo. Come quando ti marcisce un piede e ti cresce il muschio nelle vene. Fa così male.» Stava piangendo.

Meg gli prese il mento tra le dita e lo guardò negli occhi. Anche da seduto, il corpo di lui torreggiava su quello di Meg. «Devi darti una regolata. Dico sul serio.»

«Si è risvegliato» sussurrò lui, e un brivido le corse lungo la schiena. Cosa si era risvegliato? Il demone che lo spingeva a bere? Per un unico, febbrile istante le venne da chiedersi: e se quella voce di cui farneticava da quindici anni fosse reale?

Le pupille si fecero ancora più grandi, cancellando del tutto il bianco degli occhi. Una crisi epilettica? Non lo sapeva. Ma tutto d'un tratto il suo respiro tornò normale. La postura divenne rigida. Persino il tremito era sparito. Era diverso. Lei non aveva idea di come lo avesse capito, ma era così: Albert Sanguine se n'era andato. Dapprima provò così tanta tristezza che non riuscì ad avere paura. L'alcol si era ingoiato i resti dell'anima di Albert, e l'ultimo barlume della sua personalità si era spento.

«Albert?» domandò.

Accadde in fretta. Le strinse i bicipiti con le mani insanguinate. Cercò di divincolarsi, ma lui era forte. Mentre se la tirava in mezzo alle gambe, strinse le cosce. Era un'aggressione sessuale. A lei mancò il fiato. Albert. Il
suo
Albert: com'era possibile che si comportasse così?

Gli si ritrovò incollata al grembo. Lui la stringeva in una morsa con le braccia e le gambe. «Smettila!» gli urlò. Lui aveva ritratto le labbra fino a scoprire l'oscurità dei canini mancanti, sembrava ringhiasse.

Si gettò in avanti e premette la bocca umida contro l'orecchio di Meg. Lei si dimenò, e decise che se si fosse reso necessario gli avrebbe strappato il naso con un morso facendo in modo di non deglutire niente. Avvertiva nel suo fiato il puzzo dell'alcol di pane. Un puzzo di aceto e di merda. «Dov'è che ho sbagliato, Meg?» bisbigliò lui, e lei smise di lottare. Si fece immobile. Il tono di voce era basso. Ragionevole, ma per niente gentile.

Impossibile. Era completamente assurdo. Eppure lei sapeva a chi apparteneva quella voce. «Dov'è che ho sbagliato?» domandò lui di nuovo, e d'un tratto lei si ritrovò giovane, una ragazza che rinunciava alla laurea in giurisprudenza per sposare un ebreo contro il parere di suo padre che, la mattina delle sue nozze, invece di dirle quanto aveva sempre voluto bene alla sua bambina, le aveva domandato:
Dov'è che ho sbagliato?

«Papà?» la voce di Meg era incerta e infantile.

Lui si ritrasse e lei guardò l'uomo che si trovava davanti. Un buco nero al posto della bocca, un volto devastato, capelli bianchi. Aveva negli occhi acquosi un affetto pieno di riprovazione. Il solo tipo di affetto, se ne rendeva conto adesso, che le fosse mai riuscito di capire. Ma suo padre era morto, non era così? Molto tempo addietro si era riconciliata con il suo ricordo e lo aveva lasciato andare, quell'uomo per il quale qualunque cosa lei facesse non sarebbe mai stato abbastanza.

Con una mossa rapida lui si tirò in piedi, e lei si ritrovò tra le sue braccia. Lo aveva previsto, ma non c'era stato il tempo di opporsi. La scaraventò contro il plexiglass come un uccellino dalle ossa porose. Lei sentì il sibilo dell'aria mentre volava, e poi uno schianto e un crepitare di plastica quasi fosse un ritmo techno. Quando alzò gli occhi dal pavimento, le ci volle un secondo prima di capire come ci fosse finita, o cos'era stato quello schianto.

Con suo grande rammarico (non aveva sempre pensato di essere combattiva?) non si alzò dal pavimento, ma rimase raggomitolata su se stessa a fare il morto. Non accadde nulla, allora sbirciò Albert che apriva la porta nella sala dei bambini. Poi percepì rumori che prima non aveva notato. «Zitto! Zitto!» cantava Sheila. Bram stracciava il suo
Corpus Christi Sentinel
a
brandelli e li lanciava verso Albert, come se stesse cercando di ucciderlo a colpi di coriandolo. Nella sezione dei bambini regnava un silenzio minaccioso.

La caviglia sinistra le faceva davvero male, ma zoppicò fino al suo ufficio. Si fermò quando si rese conto che l'unico suo scopo era telefonare a Fenstad. Voleva sentire la sua voce ferma, calma. Voleva, assurdamente, dirgli che forse non le piaceva, ma senza dubbio lo amava.

Dall'altra parte della biblioteca sentì un gran fracasso. Che Albert avesse rovesciato a terra una libreria? Poi una vocetta esile gridò: «Aiuto!» e l'adrenalina le corse nel sangue così rapida che ne sentì il fiotto: c'era una bambina là dentro con Albert. Una bambina piccola.

Nonostante il piede malfermo, stava per lanciarsi alla carica. Ma poi si bloccò. Le serviva un piano, altrimenti lui l'avrebbe schiacciata come una mosca. La caviglia le faceva così male che si mordeva il labbro per non svenire. Scrutò in giro per la sala di consultazione. Cercava qualcosa. Un'arma. Guardò gli scaffali, i divani troppo grandi, i computer (scossa elettrica?), le penne Bic nemmeno lontanamente abbastanza acuminate da cavare un occhio; e poi la vide vicino ai giornali: la catena della bicicletta di Sheila. «Zitto!» Sheila schiumò di bava quando Meg prese quel metro di catena dal tavolo e zoppicando si diresse verso la biblioteca dei bambini.

Albert era in piedi sul tappeto ad arcobaleno e le dava le spalle. Teneva Caitlin Nero e sua figlia Isabel spalle al muro dietro una seggiola Barbapapà. Tutti gli altri erano spariti.

Meg gli si avvicinò di soppiatto. Vide le stelle e la sua visione periferica si fece sfocata. Si morse il labbro più forte, fino a sentire il sapore del sangue, e questo le restituì la concentrazione. Poi sciolse la catena lasciando pendere la parte più pesante, pronta a farla roteare.

Passò un secondo, poi un altro. Aspettava. Forse non sarebbe stato necessario. Forse era lei l'unica vera matta nella stanza, quella che brandiva una catena da bicicletta come una moderna Travis Bickle. Era così che la gente finiva ammazzata. Per la reazione sproporzionata di una testa calda. Stava già per allentare la presa quando Isabelle tossì, e Albert caricò.

Meg trascinò il piede rotto dietro quello buono. Fletté le braccia e colpì un attimo prima che lui afferrasse Caitlin Nero, che si era messa in mezzo tra lui e la piccola Isabelle. Meg lanciò con tale forza che ruotò su se stessa, poi, perso l'equilibrio, cadde.

Il lucchetto girò intorno alla schiena di Albert e lo prese all'inguine. Produsse un tonfo sordo, e dapprima lei pensò di non avere lanciato abbastanza forte, ma poi il busto di Albert vacillò mentre i piedi restavano piantati a terra, e infine crollò. Crollò accanto a lei e si ritrovarono distesi faccia a faccia. I cataloghi L.L.Bean che aveva nelle tasche si sparpagliarono sul tappeto ad arcobaleno.

Non somigliava ad Albert. Aveva la bocca contorta in un rimbrotto, e l'alcol marcio dava al suo fiato un puzzo di rancido. Come amanti infelici, le loro labbra distavano solo pochi centimetri. «Dov'è che ho sbagliato?» disse lui, muovendo le labbra senza produrre alcun suono. Dopo un tremito delle palpebre, chiuse gli occhi.

Caitlin e Isabelle rimasero in piedi in lacrime a sovrastarli. Meg notò - prima non se n'era accorta - che indossavano abiti floreali rosa identici, e persino in quel momento le parve una cosa da deficienti.

La fronte di Caitlin era corrugata in un'espressione di odio puro. Scioccante nella sua intensità. E segretezza, perché non sapeva che Meg era cosciente. Percorse con lo sguardo il corpo minuto di Meg, e Meg si rese conto che non era Albert quello che odiava. Sa cosa ho fatto con suo marito, pensò Meg con un sentimento di vergogna che le bruciava come una ferita aperta. E poi: allora perché si ostina a venire in biblioteca tutte le settimane?

Qualcosa di tiepido le gocciolava tra le dita e lei intuì, sebbene preferisse non convincersene, che era il sangue di Albert. Pensò che Caitlin avesse cominciato a gridarle contro, avrebbe giurato di avere sentito la parola «Puttana!»; ma poi, in lontananza, distinse le sirene.

 

5.

Robitussin contro ogni male!

 

Nel pomeriggio in cui sua moglie scagliava una catena d'acciaio contro la schiena di un amico, Fenstad Wintrob ascoltava il cicaleccio di Lila Schiffer. La sua voce era come la tortura cinese dell'acqua. La sua conversazione era più noiosa di un film scandinavo, più superficiale di un picchetto per la liberazione del Tibet, più dolorosa della febbre emorragica quando ti sanguinano gli occhi.

Lila parlava senza interruzione da venti minuti. Il tema del momento era il cambio di stagione, e il fatto che l'autunno sembrasse sempre la fine di qualcosa. «Come se non dovesse tornare mai più, perché anche quando arriva la prossima estate, non sarà comunque la stessa. Sarà un'altra estate» disse.

Il suo sorriso svagato le conferiva un aspetto da lobotomizzata. Non sapeva parlare agli uomini, nemmeno al suo stesso psichiatra, senza flirtare. Malgrado le sue telefonate notturne, le magliette aderenti e scollate, e gli sbaffi ostinati di rossetto scarlatto che gli lasciava sulle guance quando lo baciava prima di andarsene, Fenstad non provava alcuna tentazione. Be', questo non era del tutto vero. Il corpo di lei aveva le curve e l'elasticità di una pin-up anni Quaranta. Ma non l'aveva mai presa seriamente in considerazione. In primo luogo, era sua paziente. Secondo, era abbastanza sicuro che Meg non gli avrebbe mai perdonato un'infedeltà.

Rabbrividì pensando a quella mattina.
Freddo
,
lo aveva definito. Poi aveva scosso la testa come una martire, e lui si era domandato se tutte le donne fossero volubili, perché come poteva venirle in mente che lui potesse cambiare a quarantotto anni suonati?

Inoltre, essere freddo non era poi tanto male. Significava che era un uomo pratico, affidabile. La gente si fidava di lui. Ecco perché faceva lo psichiatra. Non rimuginava sui problemi; li risolveva.

Per tutta la vita, la gente si era confidata con lui. Ragazzi nella squadra di atletica che ancora bagnavano il letto (be', in realtà solo uno), insegnanti che non trovavano qualcuno con cui uscire, compagni della facoltà di medicina con problemi di droga - tutto l'assortimento. Lui era la prima persona a cui si rivolgevano.

Persino sua madre non lo lasciava in pace un attimo. A Wilton, nel Connecticut, la sua voce fendeva l'aria come ammoniaca. «Fennie!» urlava non appena sentiva lo scalpiccio dei suoi piedini sull'impiantito dell'anticamera. Tra i ricordi più nitidi della sua infanzia c'erano le veglie al suo capezzale, ad ascoltare il rosario infinito delle sue lamentele. Coperta da lenzuola di raffinato cotone egiziano, piangeva per il nonno morto da anni e per il cancro immaginario che era convinta le stesse divorando le ossa dal midollo. Per motivi che ancora non era riuscito a capire, la stanza di sua madre puzzava di cavolo fermentato e sudore muschioso. Ancora oggi associava quell'odore alla depressione patologica che a quel tempo nessuno le aveva diagnosticato.

Non appena Fenstad fu grande abbastanza da stare il più possibile lontano da casa, lo fece. Si iscrisse alle squadre di corsa campestre e di atletica, e restava seduto sulle gradinate della palestra a studiare a lungo dopo gli allenamenti, finché un bidello non spegneva le luci. La sera rincasava passando di soppiatto dalla porta sul retro, ingurgitava qualunque avanzo gli riuscisse di trovare sigillato nei Tupperware, infine crollava a letto senza levarsi le scarpe mentre dalle cuffie dello stereo Warren Zevon e Lynyrd Skynyrd gli cantavano la ninnananna.

Ciononostante, gli incontri con Sara Wintrob erano inevitabili. «Fennie» lo chiamava quando nel fine settimana lo sentiva scendere le scale la mattina sulla punta delle scarpe da ginnastica. Diligente, lui andava a trovarla in camera, e lei gli diceva: «Tuo padre non mi ama più. Mi lascerà e resteremo soli», o meglio ancora: «Sto per morire, Fennie. Il mio cuore non fa che fermarsi e ripartire continuamente».

Malgrado i suoi lamenti incessanti, riusciva a fare un sacco di cose mentre Fenstad e suo padre erano fuori casa. I pasti venivano cucinati, la spesa fatta e i vestiti lavati. Persino la raccolta di numeri di
Hustler
che Fenstad accumulava sotto il materasso veniva puntualmente buttata in pattumiera una volta al mese.

L'episodio che Fenstad avrebbe classificato come il più degno di essere dimenticato era capitato quand'era al secondo anno del liceo. Era appena rientrato dagli allenamenti di atletica dopo aver corso tre serie di gare a cronometro sugli ottocento metri. Si sentiva le gambe molli come spaghetti scotti quando Sara lo chiamò in camera, e dovette aggrapparsi al corrimano per salire le scale. Quando arrivò accanto al letto, il respiro di Sara era rapido e affannoso.
Ipocondria
,
aveva subito pensato lui, e poi, più nel profondo, pur sapendo benissimo che non era vero:
infarto.

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