Authors: Sarah Langan
Albert era il suo preferito. Prima di aprire i libri nuovi li annusava, come un conoscitore che degusti un Borgogna del 2001. E, cosa ancora più importante, li restituiva sempre per tempo. Era un lettore vorace, e nel corso degli anni si era interessato ad argomenti che spaziavano dalla termodinamica all'ematologia, fino ad arrivare alla sua ossessione attuale, i campi di prigionia della Guerra di Secessione. Nell'ultimo mese si era fissato su quell'onta della storia americana che fu Andersonville, Georgia. Nei due anni di attività del campo erano morti tredicimila soldati nordisti. I contadini avevano taciuto, persino quando le fosse comuni avevano cominciato a crivellare i terreni intorno al campo.
Meg non amava incoraggiare gli interessi più macabri di Albert, ma quando lui si metteva in testa un'idea diventava irremovibile e non c'era verso di dissuaderlo. «Perché proprio la guerra civile?» gli aveva domandato la settimana prima. Senza alzare gli occhi da
Vicissitudini di un secondino di Andersonville
,
con la testa e le mani che tremavano, le aveva risposto: «È come un organismo con una malattia autoimmune. Aheem. AHEEM. È un corpo che aggredisce se stesso».
Era questa la tragedia. Albert non era stupido. Ora aveva trentatré anni, ma la crisi risaliva a quand'era andando a studiare ingegneria urbanistica al Massachusetts Institute of Technology. Il suo talento per i numeri era impressionante, ma il distacco dalla famiglia e lo stress delle lezioni e delle nuove conoscenze lo avevano sopraffatto. Aveva cominciato a soffrire di allucinazioni, e a sostenere che qualcosa lo stava richiamando nel Maine. Così aveva abbandonato il Mit ed era tornato a vivere con i genitori. Da allora erano passati quindici anni, ma Albert non si era più ripreso. Rifiutava di curarsi con gli antipsicotici, preferendo bere quasi ogni sera finché crollava a letto semisvenuto. La vita condotta in tutti quegli anni lo aveva trasformato in un vecchio. Aveva perso i canini, e i radi ciuffi di peli che gli spuntavano sul petto erano bianchi. Gli alcolici in commercio non se li poteva permettere, così distillava da solo in casa. Filtrava un colluttorio attraverso fette di pane bianco e lo lasciava fermentare in barattoli che teneva sotto il letto. Poi beveva la miscela, che lui chiamava budino di pane. Meg lo sapeva perché la miscela emanava un odore atroce, il padrone di casa di Albert lo aveva denunciato per la violazione di sei norme sanitarie e i suoi genitori anziani, che abitavano dall'altra parte della città, non avevano avuto altra scelta che pagare la multa.
Lei lo aveva sempre considerato un gigante gentile e triste, ma nel corso di una recente crisi di delirium tremens in ospedale Albert aveva sferrato un pugno in gola a una volontaria quattordicenne. Caso volle che la ragazza fosse bulimica, con i muscoli della gola sottili come carta velina, e Albert le aveva lacerato l'esofago. Dopo tre ore in sala operatoria erano riusciti a salvarla, anche se, comprensibilmente, le venne meno l'interesse per la medicina. Era stata la prima manifestazione violenta di Albert, ma per Fenstad una volta era sufficiente. Aveva detto a Meg di non lasciarlo più entrare in biblioteca.
Detto
nel senso di
ordinato.
Suo marito aveva ragione, naturalmente. Albert peggiorava a vista d'occhio. Qualche settimana fa le aveva confessato di avere catturato un ratto nel proprio appartamento. Lo aveva scuoiato e arrostito sulla fiamma di un accendino Bic, e poi l'aveva mangiato. Gli anni passati a bere il suo budino di pane avevano lasciato il segno. Le sue esplosioni tourettiche si erano intensificate, e certo non era una buona idea che stesse vicino ai bambini. Ma a Meg Albert
piaceva
,
mentre non gradiva affatto ricevere ordini. Quindi, fino a quando non si fosse dimostrato pericoloso, gli aveva permesso di restare. Le cliniche psichiatriche del paese chiudevano una dopo l'altra: in quale altro posto potevano andare le persone come lui?
«AAAHEEEM!» Improvvisamente il tic di Albert si era fatto forte come cercasse di espellere dalla gola un gorilla.
Meg batté più volte la penna di plastica sulla parete di plexiglass, ma Albert non le prestò attenzione. Fece un respiro profondo che sembrava dovesse sconfinare in un ululato.
Non ora, Albert
,
pensò lei.
Non sono proprio dell'umore per la mattane di qualcun altro.
Batté il pugno sulla parete dell'ufficio fino a farla tremare. Dall'altra parte, Albert si bloccò a mezzo respiro. Adesso erano entrambi in piedi, separati dal plexiglass.
Albert era alto quasi un metro e novanta, e doveva pesare ben più di ottanta chili. Lei raggiungeva a stento il metro e sessantacinque su tacco tredici. Corrugò la fronte e scosse lentamente la testa. Dall'altra parte della parete di plastica Albert arrossì. «Mi scusi, signora Wintrob» disse, muovendo le labbra senza suono, e si accasciò di nuovo sulla sedia.
Meg tornò al suo posto. Fino al mese prima condivideva l'ufficio con il responsabile amministrativo e una vicebibliotecaria, ma si erano poi dimessi quando il municipio aveva ridotto loro lo stipendio. Al comune stavano ancora cercando dei sostituti. Il resto del personale era costruito da volontari, che tendevano a raggrupparsi al banco dell'accettazione, dove potevano bere caffè e leggere in pace e lontani dagli sguardi indagatori di Meg.
Meg tornò al suo
Publishers Weekly
e diede un morso al panino rammollito. Stava pensando a Fenstad. C'era stato un tempo in cui lo aveva amato, ma non riusciva a ricordarsi quando. Ormai, quando lo vedeva aveva voglia di prenderlo a calci. Il pensiero di Fenstad le fece tornare in mente l'uccello di quella mattina, e gli occhi le si riempirono di lacrime. Quell'uccellino idiota.
Cinque minuti dopo guardò l'orologio. Erano quasi le due del pomeriggio, e doveva prepararsi per la lettura della fiaba. Buttò nel cestino il panino praticamente intonso, e si alzò. Albert era quieto. Non si sentiva altro che il picchiettare delle sue dita sulla tastiera, alla ricerca, senza dubbio, di foto di Andersonville. Lei bussò sul plexiglass e lo salutò con un cenno della testa, sperando che in sua assenza continuasse a stare tranquillo. Quindi aprì la porta che conduceva alla biblioteca dei bambini.
Le pareti della biblioteca dei bambini erano intonacate di blu come un cielo e punteggiate di nuvole, e al centro della sala era disposto un cerchio di seggiole di plastica arancione a forma di Barbapapà collegate l'una all'altra. La sala dei bambini era l'orgoglio di Meg. Ronzava di vita tutto il giorno. In quel momento, un gruppo di bambini sui tre anni caracollava sul tappeto variopinto come un arcobaleno mentre sette madri e due padri chiacchieravano tra loro dei propri lavori part-time, delle previsioni del
Farmers' Almanac
per l'inverno imminente, e dei bei tempi prima dei figli, quando alle sei del pomeriggio scoccava l'ora dell'aperitivo.
Meg aprì un libro illustrato di Sarah Sehi sull'Iowa, intitolato
Il cielo dappertutto
,
e cominciò a leggere. Ogni volta che il libro citava il cielo, Meg indicava i nembi bianchi disegnati sul soffitto blu. Tutti i bambini la imitavano, tranne Isabelle Nero. L'indice Isabelle preferiva tenerselo in bocca, ruminando appagata come con un succhiotto di gomma.
Caitlin, la madre di Isabelle, era giovane, bionda e graziosa come una bambolina. Cuciva con le proprie mani i vestitini di Isabelle. La mattina lavorava vendendo gli spazi pubblicitari del
Corpus Christi Sentinel
,
e ogni sera faceva un massaggio al marito. Meg lo sapeva perché il marito di Caitlin era Graham Nero.
Graham lavorava come broker a distanza per una società di investimenti con sede a Boston, e passava il tempo libero a mangiarsi con gli occhi le cameriere dei bar. Per i loro rendez-vous aveva scelto la stanza 69 del Motel 6. Meg lo aveva fatto in parte per il gusto del brivido, ma soprattutto come reazione a Fenstad. Le prime volte il sesso era stato fantastico, probabilmente perché quel tizio non le piaceva abbastanza per trattenersi. Ma se vai a letto con un uomo, alla fine devi poterlo guardare negli occhi e provare stima. Con Graham non era stato possibile. Lo aveva guardato e le erano venuti i brividi.
Fenstad lo aveva scoperto un mese dopo il loro primo appuntamento nella stanza 69. Non aveva mai affrontato l'argomento, né le aveva spiegato come lo avesse capito. Una sera, invece di accendere la tv e guardare il notiziario, era rimasto seduto al tavolo della cucina dopo che lei aveva sparecchiato. Lei aveva capito subito che qualcosa non andava. «Pare che tu ti sia fatta un nuovo amico» le aveva detto.
«Sì» aveva risposto lei, «mi dispiace.» Aveva poi atteso che si mettesse a urlare, a battere il pugno sui mobili, a piangere, a decretare che uno dei due doveva andarsene. Non vedeva l'ora. Ma lui non aveva detto niente. Aveva solo annuito, come a indicare che avrebbe pazientato fino al termine di questa sua pazzia temporanea perché anche se lei stessa non poteva ancora saperlo lui confidava che sarebbe rinsavita.
La esasperò più di ogni altra cosa il fatto che lui avesse ragione. Aveva telefonato a Graham quella sera stessa. Fenstad la ascoltava seduto al tavolo mentre diceva: «Non possiamo più vederci. Mio marito sa tutto».
«Peccato, baby» aveva detto Graham, due parole che riassumevano Graham Nero
in toto.
Fenstad, seduto al tavolo, aveva continuato a leggere il giornale, e questo riassumeva Fenstad Wintrob.
Quando Meg ebbe finito di leggere
Il cielo dappertutto
,
indicò a genitori e bambini una pila di libri raccolti appositamente che parlavano dell'Iowa e delle nuvole. «Grazie, Meg. Sei così brava con le fiabe» le aveva detto alla fine Caitlin con un sorriso timido, e Meg aveva annuito: «Sempre a disposizione».
Meg provava compassione per Caitlin. Graham non era una persona cattiva, ma era egoista. Avrebbe spremuto Caitlin fino a quando la salute e la bellezza non l'avessero abbandonata, e lei era abbastanza tonta da non ribellarsi. Poi Meg si sentì in colpa, perché poteva anche trovare da ridire sui suoi modi, ma almeno Fenstad era una persona decente.
Proprio in quel momento, qualcuno cominciò a urlare nella sezione dei libri di consultazione. «Ehi. Ehi-u! EHIUUU!!!» La voce era inconfondibilmente quella di Albert. Meg corrugò la fronte. Non gridava mai in quel modo.
«Torno subito» annunciò. Trovò Albert che sbatteva entrambe le mani sull'iMac usato della sua postazione, facendo tremare il separatore di plexiglass. «EHIUUUH!» urlava, intendendo cosa, un saluto? Fili appiccicosi di saliva gli pendevano dalla bocca fino alla tastiera. Com'era prevedibile, ma non per questo meno irritante, le tre anziane signore del personale volontario si erano nascoste dietro il banco dell'accettazione. Da lontano, Meg intravedeva la messa in piega bianca di Molly Popek.
«Albert?» domandò.
«EHIUUU-ASTA!» disse lui. Stava battendo così forte sul computer che il suo tremito non si avvertiva nemmeno. Lei tradusse: «Ehi, tu, basta!».
«Zitto!» strillò Sheila Haggerty, la barbona del posto. Sul tavolo davanti a sé teneva la catena con lucchetto che si portava sempre appresso, ma che ogni giorno si scordava di utilizzare per legare il suo carrello del supermercato alla rastrelliera delle biciclette davanti alla biblioteca. «Non sopporto le lagne! Guarda che adesso mio marito ti spara!» strepitò.
«Sta scavando» gridò Albert. «Oddio. Sta per disseppellire i miei begli ossicini.» La bava gli schizzava a fiotti selvaggi sulle guance. «EHIUUU-ASTA!» urlò di nuovo sbattendo furiosamente le mani contro il monitor. Poi Meg sentì uno schiocco secco. Lui continuò a martellare, e intanto il polso sinistro gli si piegò fino ad essere parallelo alla mano in una posizione che non poteva significare altro che frattura. Quello che più la spaventò fu che ciò non lo aveva nemmeno rallentato.
«Molly!» strillò lei. «Chiama la polizia.» Molly adesso era in piedi. Guardò Meg per un secondo o due, poi tornò a rivolgere la sua attenzione ad Albert senza sollevare la cornetta del telefono. Il tempo stringeva, ma a Meg bastò per maledire mentalmente i dannatissimi volontari scrocca caffè. Poi racimolò il coraggio e si avvicinò. Sullo schermo del computer di Albert c'era la fotografia di uno dei luoghi di sepoltura di Andersonville. Dentro la fossa aperta i cadaveri dei nordisti erano stipati a decine, uno sopra l'altro. I loro corpi nudi, macilenti, erano pressati insieme come pezzi di un puzzle, inumani e anonimi.
«Albert!» gridò. Lui le voltava la schiena, e continuò a colpire con le mani l'apparecchio di plastica.
«Albert!» Sheila le fece il verso con una cantilena isterica. «Al-bert! Al-bert!» Poi cominciarono a urlare anche Bram e Joseph, gli altri due membri del quartetto di malati mentali che Meg ospitava alla biblioteca di Corpus Christi. La sezione dei libri di consultazione si trasformò d'un tratto in un coro, e lei si sentì la regina dei pazzi.
Dall'altra parte della biblioteca, i genitori uscivano in punta di piedi tenendo i bambini in braccio. Oggi nessuno di loro, purtroppo, avrebbe preso in prestito o restituito dei libri. «Mi dispiace» mormorò Meg a Christen Fowler, che scosse la testa mentre usciva con suo figlio, come fosse stata Meg a scatenare quel casino.
Dopo un po' Albert si stancò e smise di battere. Sheila continuò a strillare il suo nome finché Meg le indirizzò l'espressione più severa di cui fu capace: una combinazione di sopracciglia corrugate e labbra strette. Poi si rivolse di nuovo ad Albert, prestando comunque attenzione a mantenere la distanza di sicurezza. «Cosa ti è preso?» domandò.
Albert respirava a fatica per la paura, o per lo sforzo, o per entrambi. «Mi prude. Dentro!» sibilò. «EHI-UUUH, BASTA SCAVARE!»
«Andiamo fuori, Albert. Facciamo due passi.» Si sforzò di mantenere un tono calmo, ma le tremava la voce, la sua paura si percepiva. Albert era il doppio di lei, letteralmente.
Aveva gli occhi iniettati di sangue tipici dell'alcolista. «Mi prudono le ossa. Da tutte le parti. Come può un bambino così piccolo fare una cosa tanto cattiva?» Le si avvicinò. Lei pensò subito alla volontaria, e si coprì la gola.