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Authors: Sarah Langan

Virus (24 page)

«È un maschio. Il suo amore è diverso. Vuole prendersi cura di te.»

Maddie annuì. «Forse hai ragione tu... Mamma?»

«Dimmi.»

Maddie passò piano una mano sul finestrino chiuso lasciando una scia. Superando la loro, le altre auto rallentavano, curiose di capire perché la Saab familiare dei Wintrob fosse parcheggiata in divieto di sosta accanto all'ospedale, con le quattro frecce lampeggianti. «Non ha mai potuto divertirsi... È per questo che parte. Vuole bere birra e uscire in licenza per incontrare ragazze. Farà tutte le cose che non ha potuto fare prima, quando doveva occuparsi della sua famiglia.» Parlava senza guardare Meg, ma tracciando con un dito una scia umida sul finestrino.

Meg corrugò la fronte. Enrique non era tipo da scappare davanti ai problemi, e adorava Maddie. Ma d'altra parte, aveva solo vent'anni, e per tutta la vita non aveva fatto altro che lavorare al banco di una drogheria. Forse Maddie aveva ragione. Povera piccola. Come se essere piantata per l'esercito non fosse abbastanza. «Vieni qui» disse Meg.

Maddie non le diede retta. Riprese invece a strofinarsi il segno dello schiaffo come se si aspettasse che Meg gliene assestasse un altro. Non lo faceva apposta, e per un breve istante Meg si vide con gli occhi di sua figlia: un tiranno capriccioso il cui scopo non era la felicità della figlia, ma la sua obbedienza. Proprio come il buon vecchio papà.

«Non voglio litigare» disse Meg, e per tutta risposta Maddie ebbe un singulto. Il suono la fece vergognare, perché le fece capire che Maddie era spaventata.

«Facciamo una cosa. Il castigo rimane, ma se Enrique riceve la cartolina, puoi passare la giornata con lui.»

Maddie scoppiò in un pianto dirotto.

«Cosa c'è? Cos'ho fatto adesso?» domandò Meg.

Maddie scosse la testa. Poi le si avvicinò e si lasciò andare tra le sue braccia. «Grazie, mamma» disse. Il suo peso gravava sulla gamba rotta di Meg, ma lei non volle guastare il momento, così sopportò il dolore a denti stretti e lasciò che sua figlia sfogasse tutte le sue lacrime. «Sono furibonda con lui. Mi dispiace per quello che ti ho detto. È lui che odio.» La voce di Maddie era soffocata dalla camicetta di Meg. «Il papà non ti ha mai fatto una cosa del genere. Il papà non ti ha mai piantata in asso.»

Meg ingoiò la risposta che aveva sulla punta della lingua (
a volte avrei preferito che lo facesse
), e disse: «Non tutti sono come il papà».

Maddie annuì come se per lei Fenstad fosse perfetto, e Meg provò una fitta di gelosia, ma questa volta si sforzò di non indugiarci. Una ragazza ha il diritto di credere che suo padre sia una divinità, anche se questo rende le madri tanto più umane.

«Maddie» disse Meg, «non avrei dovuto colpirti. Ho sbagliato. Ma quello che hai detto mi ha ferita. Non puoi dirmi cose del genere.»

Maddie inclinò la testa. «Già» rispose. «Avevo proprio perso il controllo.»

 

17.

Il dandy

 

Una volta lasciata Maddie alla rotonda degli autobus della scuola (aveva galoppato spensierata attraverso l'ingresso principale, dimentica dell'impronta che portava sulla faccia), Meg aprì la biblioteca. I volontari avevano tutti la chiave, ma il parcheggio era vuoto. Non avendola trovata alla sua scrivania, probabilmente avevano stabilito che quella sarebbe stata una giornata festiva e se n'erano andati a bere il caffè al bar. Lei entrò nell'edificio deserto, accendendo gli interruttori delle luci al neon mentre zoppicava sulla moquette blu industriale. Non c'erano messaggi in segreteria, e da quando Meg aveva chiuso il pomeriggio precedente nessuno era passato a restituire nemmeno un libro nella cassetta. Si chiese se l'influenza che c'era in giro avesse confinato a letto i frequentatori abituali.

La biblioteca era disastrata. Il giorno prima aveva cercato di rimettere ordine nei limiti della sue possibilità, che si erano rivelati molto ridotti. Libri e carte erano disseminati ovunque come una coltre di neve. L'impronta delle dita di Albert era ancora perfettamente preservata sulla tastiera dell'iMac su cui si era sfogato. La partizione di plexiglass era graffiata, e lei non riuscì a capire come fosse accaduto finché non individuò a terra il quadrante rotto del Seiko d'oro che portava da tre anni. Si era sentita come privata del suo corpo quando lui l'aveva scaraventata in aria. Non era riuscita a comprendere appieno la sensazione, ma istintivamente si era protetta il volto dall'impatto. L'unica cosa che aveva avvertito distintamente era il sibilo dell'aria mentre volava.

Prese la tastiera dove si erano seccate le impronte enormi delle dita di Albert. Poi uno sciame di vespe le ronzò nella pancia. Era davvero possibile che lui fosse là fuori, nel bosco?

Guardò oltre la finestra, e provò la stessa vaga inquietudine che aveva avvertito a colazione. Qualcosa che aveva a che fare con il prato e gli alberi. La brezza era tiepida, e il verde aveva appena cominciato a seccarsi e morire. Per la strada passava qualche macchina, ma meno del solito. Tutto troppo tranquillo. Come in quei quiz per bambini su
Highlights Magazine
,
in cui, sotto il titolo: «Individua i dettagli fuori posto», c'era un disegno nel quale gli uccelli volavano al contrario e alle persone mancavano gli occhi o la bocca.

E se Albert aveva ragione? Se c'era davvero qualcosa che viveva nel bosco, e che chissà come si era impossessata di lui? In un certo senso era plausibile. Martedì in biblioteca non sembrava davvero lui. Era... un altro (
Dov'è che ho sbagliato?
).

Sapeva che avrebbe dovuto provare compassione per Albert. Probabilmente era morto. Ma quel luogo deserto le metteva solo paura. Voleva tornare a casa.

Lo sbaffo di sangue sul tasto di invio mostrava distintamente l'impronta digitale di Albert. Aveva pensato per un attimo di lavare la tastiera, di rimetterla a nuovo. Invece la lasciò cadere nel bidone dell'immondizia. Poi zoppicò fino alla sala dei bambini. Il tappeto ad arcobaleno si era arricciato al centro ed era macchiato del sangue di Albert. Un pulviscolo di polvere stava sospeso nel fascio di luce che entrava dalle finestre. Alla parete il vecchio orologio ticchettava i secondi. Le dieci e mezza. E se oggi Albert fosse tornato lì a cercarla? Se avesse deciso di portare a termine l'opera rimasta incompiuta, e spezzarle l'osso del collo?

Dov'è che ho sbagliato?

La caviglia le faceva male. Un osso così gracile, l'aveva tradita rompendosi tanto facilmente. Si appoggiò al muro. Si ritrovò in lacrime. Chi cercava di prendere in giro? Non erano gli occhi di Albert quelli che aveva visto due giorni prima. Frank Bonelli l'aveva raggiunta dall'oltretomba.
Dov'è che ho sbagliato?
Quella frase non le dava requie, la tormentava da sempre.

Si asciugò gli occhi. I ricchi estimatori di
Barnes&Noble
a Corpus Christi non sarebbero morti se la biblioteca fosse rimasta chiusa un altro giorno. Nessuno prendeva in prestito i libri se poteva permettersi di comprarli. Lei sarebbe tornata a casa. Afferrò le stampelle e stava per spegnere le luci quando dalle porte a vetri, vide una Porsche rossa che parcheggiava. Il cuore prese a batterle all'impazzata.
Oh, no.

Si guardò rapidamente intorno. L'ufficio era trasparente. L'avrebbe trovata. Il bagno delle signore? Poteva funzionare. Poi scosse la testa. Lasciamo perdere. Probabilmente era diretto al country club e si era perso, cercava qualcuno che gli desse un'indicazione. Nemmeno se lo ricordava che lei lavorasse lì.

In quell'istante Graham Nero entrò a passo di marcia dalla doppia porta a vetri della biblioteca. Non si fermò al banco dell'accettazione, facendosi invece strada verso l'ufficio di Meg. Lei non lo aveva mai visto lì dentro, così si sorprese di vedere che sapesse dove andare. Lui si portò le mani a visiera intorno agli occhi e scrutò attraverso il plexiglass. La stava cercando. Poi fece un paio di colpi di tosse. Uno schizzo di saliva si incollò alla plastica. Ci rimase appeso, immobile, e lui non fece nemmeno il gesto di pulirlo. Il reparto dei libri di consultazione era illuminato dalla luce del sole. Lui si voltò e abbassò le veneziane.

Lei deglutì a fatica, anche se si trattava solo di Graham. Ma aveva sprofondato la sala nel buio, e tutto d'un tratto il buio la rendeva nervosa. Zoppicò attraverso la porta laterale e gli bussò sulla spalla. «Cerchi qualcuno?»

Lui si girò. L'odore di mentine nel suo alito era così intenso che le fece lacrimare gli occhi. Poi tossì. Questa volta si portò alla bocca un fazzoletto con le sue iniziali ricamate in grandi lettere dorate. Aveva i capelli lucidi di brillantina, e a lei parvero meno radi dell'ultima volta che l'aveva visto. Guardò meglio: un toupée! Levò gli occhi al cielo: quell'uomo era un dandy incorreggibile.

«Caitlin mi ha raccontato tutto. Volevo venire a trovarti in ospedale ma...» Spalancò le braccia, lasciando intendere che il seguito fosse ovvio. Poi sorrise affettuoso, come se a legarli fosse stato amore.

«Grazie lo stesso. Basta il pensiero» gli disse Meg.

Graham le strinse la vita tra le mani. Le sue dita erano morbide, non avevano mai rastrellato foglie in giardino né lavato i piatti. Persino il suo mento era morbido. Strano che per un po' avesse fantasticato di fuggire con lui.

«Ero preoccupato. Hai salvato la mia famiglia.» La sua voce era monocorde, come se stesse leggendo un discorso scritto.

«Levami le mani di dosso, Graham.»

Lui inclinò la testa e sorrise. «Ti sono molto grato, ma era quello che mi aspettavo.» Era pallido, e aveva gli occhi cerchiati di occhiaie nere. I pantaloni marroni del completo da ufficio erano stazzonati, e sul taschino della camicia c'era una macchia rossa rotonda. Una tenuta trasandata per un uomo che ogni mattina passava un'ora a rimirarsi allo specchio.

Lei gli diede uno schiaffo sulle mani. Lui strinse più forte, come si trattasse dei loro soliti preliminari. Attraverso il tessuto della camicetta le sue dita fredde le raggelarono la pelle. «Torna a casa da tua moglie» gli disse.

Graham fece una smorfia. Non sembrava davvero triste. Era una smorfia di seduzione. «Non posso. Caitlin se n'è andata» rispose.

Meg gli schiaffeggiò di nuovo le mani, con violenza, e questa volta lui lasciò la presa. Malauguratamente, era stata quella a reggerla. Perse l'equilibrio e cadde.

Lui la afferrò sotto le ascelle. Le sue dita le sfiorarono i seni mentre la rimetteva in piedi. «Ha indovinato tutto di noi. E poi se n'è andata. L'aggressione l'ha cambiata» disse. Nel suo alito l'aroma di menta era sbiadito. Al suo posto si avvertiva qualcosa di rancido.

Meg si sentì avvampare la faccia, e tutto cominciò a girare. Aveva distrutto un matrimonio, o quantomeno ne aveva accelerato il logorio. E nonostante tutto quel bastardo non perdeva l'occasione di una palpatina. Cercò di divincolarsi ma lui la strinse più forte. «Graham, mi dispiace che sia dovuto succedere.»

«Sì.» Graham fece una faccia da cane bastonato, come avesse il cuore spezzato. «Detesto stare da solo. Non faccio che pensare a te. Caitlin lo aveva capito. È per questo che se n'è andata.»

Meg rimase interdetta. Per tutto il mese della loro relazione, non erano mai andati oltre la cortesia impersonale di
grazie
e
prego.
Non sapeva se lui credesse in Dio, o se andasse in chiesa solo per abitudine. Non sapeva se preferisse il caffè amaro o con lo zucchero. O se con le dita dei piedi gli riuscisse di raccogliere gli oggetti da terra. «Graham» disse, «sono lusingata. Ma sii sincero. Non sono certo la prima che ti porti in un motel scalcinato.»

Graham girò la testa e tossì. Lo sputo atterrò sulla moquette. Dal colletto aperto della camicia lei intravide uno sfogo. In alcuni punti era giunto a maturazione, e il sangue gli punteggiava il collo liscio e glabro. «Andiamo a mangiare qualcosa, Meg. Ho una fame da lupi.»

Un brivido le corse lungo la schiena. Pensò all'uomo dolce che era stato Albert Sanguine, e al mostro che viveva dentro di lui. E se era vero, e adesso il mostro si era impadronito anche di Graham? Uno dopo l'altro tutti gli uomini della sua vita le si sarebbero rivoltati contro. L'avrebbero immobilizzata a terra piegandole lo spirito come da sempre lei si aspettava. Come suo padre aveva sempre desiderato fare. Era suo padre, questa cosa che la perseguitava?

«Graham, sono al lavoro. Qui è dove lavoro» disse. «Non posso piantare tutto per venire a mangiare con te.»

Lui le prese una ciocca di capelli tra due dita e lei gli scacciò la mano. Gli occhi di lui si strinsero. Per un secondo Meg ebbe il timore che l'avrebbe colpita. Incassò la testa nelle spalle, e lui sorrise. «Meglio se fai la brava, e non mi fai arrabbiare.

Meg arretrò contro la parete dell'ufficio alle sue spalle. Ma cosa diavolo stava succedendo? Graham Nero era un dandy egocentrico. Non un violento. Nessuno gli interessava abbastanza da suscitare in lui emozioni intense, non avrebbe mai fatto nemmeno una dichiarazione d'amore, se non a una donna molto attraente e disposta a lavargli la biancheria.

«Dai, Meg. Beviamo solo una cosa. Io e te. Ho preso la solita stanza. Ho la chiave.» La sfilò di tasca. Solo guardare la tessera di plastica magnetizzata che apriva le porte al Motel 6 la fece arrossire. Che cosa squallida aveva fatto.

«È meglio che tu vada» disse. Il suo tono era deciso, e non tradì altro che una mente fredda. Ma se lui le avesse guardato le mani, le avrebbe viste tremare.

Le strinse la spalla. Lei tentò di scappare, ma la gamba ingessata cedette. Questa volta, lui non l'afferrò. Lei cercò di appoggiarsi al muro, ma scivolò fino al pavimento. Fitte lancinanti le si irradiarono dal piede all'inguine, fino allo stomaco. Il dolore alla caviglia era così forte che per un istante desiderò di poterla amputare. «OOOOHHH.» Si era messa a piangere. Non riusciva a trattenersi. L'unica cosa che le impediva di svenire era l'idea di lasciare il suo corpo inerte in balia di quel pazzo.

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