Authors: Sarah Langan
Per un po' rimasero zitti. Dal piano di sopra, la musica pulsava. Lui appoggiò una mano sulla coscia muscolosa di Meg. Lei non si mosse. Gli si sedette più vicina, e a lui tornò in mente il sesso di quel pomeriggio, pensò che era stato esattamente ciò di cui avevano bisogno. A Maddie la collera sarebbe passata, naturalmente, come tutte le sue lune. Persino i suoi sentimenti per Enrique sarebbero passati.
«Si è proprio incazzata» disse Meg.
«Le passerà.»
«Già. Solo che io non stavo pensando ad Albert quando l'ho messa in castigo. E tu?»
«Un pochino pensavo ad Albert. Un pochino a quell'altro.»
Meg ricominciò a grattarsi la gamba, ma lui le fermò la mano. Ripiegò un foglio di carta e lo infilò sotto il gesso. Trovata la presa, cominciò a grattare. Lei fece un verso appagato come le fusa di un gatto, e chiuse gli occhi.
«Non riflette mai prima di fare le cose» disse con aria sonnolenta. «Lo sposerebbe su due piedi se lui glielo chiedesse, e allora addio università. Butterebbe la Brown dritta nel cesso. È troppo viziata. Non ha idea di cosa significhi lavorare, né del valore del denaro. Voglio dire, lui è un bravo ragazzo, ma le rovinerebbe la vita.»
«Be', a maggior ragione è giusto tenerla in castigo.»
«È solo che... vedo tutto ciò che potrebbe capitarle, e vorrei proteggerla. È così dolce e sensibile. Non voglio che debba cambiare. Ma ormai è praticamente una donna adulta. Non possiamo continuare a trattarla così, le tarperemmo le ali.»
Da sopra, la musica era ancora a tutto volume, e adesso si sentivano anche oggetti scaraventati contro le pareti. Libri? Una lampada? Chi poteva saperlo.
«Aspettiamo» disse Fenstad. «Fidati di me. Si calmerà.»
Meg si strinse nelle spalle. «Sono stanca di pensarci. Ho bisogno di un'Aspirina.»
Lui annuì. «Anch'io.»
15.
I due grassoni non la smettevano di tossire
Venerdì mattina segnò il terzo giorno dalla scomparsa di James Walker. La notte prima Fenstad non aveva dormito sonni tranquilli. Intorno alle tre, Maddie aveva sparato
God Save The Queen
dei Sex Pistols a un volume così assordante che lui si era sentito pulsare le percussioni fin dentro le ossa. «Non ci credo» aveva rantolato Meg nel buio al suo fianco. «Adesso è diventata punk?» Lui aveva fatto per alzarsi ma lei lo aveva fermato. «Proprio la soluzione ideale, tu che spalanchi la porta e la sorprendi completamente nuda. Si metterebbe a strillare 'incesto' a squarciagola.» Meg saltellò fuori dal letto, e zoppicò sulle stampelle lungo il corridoio. Fenstad sentì un bussare brusco, e la porta che si apriva. «Messaggio ricevuto, signorina. Sei incazzata nera. Adesso però falla finita.»
Al tavolo di colazione sembravano usciti tutti e tre da un ciclo di centrifuga della lavatrice. I ricci di Meg si era attorcigliati in un vello crespo, e indossava la stessa vestaglia di cotone logoro di martedì mattina. Maddie aveva gli occhi arrossati e gonfi per le ore passate a piangere, e dato che per la frattura Meg era rimasta indietro con i lavori domestici, Fenstad era stato costretto a indossare il paio di jeans meno maleodoranti che era riuscito a recuperare dal cesto della biancheria. Tutti questi ingredienti resero inevitabile un litigio mattutino.
Meg indicò il pezzo di spago che reggeva gli enormi pantaloni scozzesi di Maddie. «Dopo la colazione ti metti una cintura vera» disse.
Maddie sbatté la forchetta sul piatto con tanta forza che una scheggia di ceramica schizzò via come un missile passando proprio davanti al naso di Fenstad. «Perché non mi lasci un po' in pace?»
«Perché ti conci come un pagliaccio» ribatté secca Meg.
Maddie ricominciò subito a piagnucolare. «Non te ne frega niente di me. Vuoi che sia carina e magra ma non anoressica, e che esca con i ragazzi giusti, purché non con Enrique. Io sono una persona, ma di quello che penso tu te ne freghi.»
E poi, naturalmente, seguirono le urla. Per qualche secondo Fenstad si isolò. Cominciò a pensare al cane nero del sogno. Somigliava al pastore tedesco di qualcuno, ma di chi? Non gli veniva proprio in mente, ma ricordava distintamente che aveva zanne appuntite e implacabili come una tagliola d'acciaio.
Maddie lo richiamò al presente, sbraitando: «Quando parto per il college qui non ci torno mai più! E allora finalmente vi concentrerete sulla vostra stupida, inutile vita invece di passare il tempo a comandarmi a bacchetta!». La sua voce era stridula, appassionata, e distintamente diciottenne.
«Ah sì? Se scappi di casa, chi ti darà i soldi per tutti quei vestiti da pagliaccio?» le gridò Meg.
La cosa andò avanti per un po'. Fenstad si sforzò di ignorarle. Quando si lasciava coinvolgere, la tensione scalava picchi inauditi, quindi aveva imparato a proprie spese a tenere la bocca chiusa. Si alzò da tavola. Nessuna delle due distolse lo sguardo di sfida dagli occhi dell'altra nemmeno per il tempo di salutarlo mentre andava al lavoro.
In ospedale aveva la vista così sfocata dalla mancanza di sonno che gli pareva che le luci al neon mandassero un bagliore giallastro. Val, la sua segretaria, gli consegnò una pila di messaggi, tutti appuntati sui post-it. «Cinque dalla segreteria telefonica, e il resto nell'ultima ora» disse.
Lui fece un respiro profondo. Nella sua mente il pastore tedesco nero abbaiava. Val portava la sua solita coda di cavallo legata con l'elastico. Da ieri un herpes grosso come un cavolfiore le era fiorito sul labbro superiore. Era una donna brutta, e in quel momento lui la odiò per questo. La odiava più di Albert in agguato nel bosco, più di quell'egoista di sua moglie, di quella pazza di sua figlia, e di quell'effeminato di suo figlio. La odiava più di tutti i suoi pazienti, e di Enrique Vargas. La rabbia gli bruciava dentro, e si domandò vagamente se forse non gli servisse un pisolino. «Cos'è tutta questa roba?»
«Questa mattina sono impazziti tutti» rispose Val, perfettamente ignara del fatto che in quel preciso istante lui stava desiderando con tutto il cuore che un treno lanciato a tutto vapore sfondasse la parete e la tirasse sotto, stile Anna Karenina. Lei si tamburellò il pennarello nero sulla tempia lasciandosi una lentiggine scura, poi ripeté a memoria: «Lila dice che i suoi figli si comportano in modo strano. E poi... qualcosa a proposito di uno sciroppo per la tosse?» Guardò Fenstad, e lui annuì per comunicarle che aveva inteso il riferimento. «La mattinata è libera fino a mezzogiorno, quindi le ho detto che poteva passare con i bambini. Se le sembrava più urgente, le ho detto di andare al pronto soccorso. Non serve richiamarla.»
«Poi?» domandò lui.
«Jodi Larkin dice che sua figlia è malata. Una crisi asmatica o roba del genere. Ma lei è convinta che sia un fatto mentale. Vuole che la chiami. Carl Fritz ha bisogno di una nuova prescrizione di Ritalin.» Val fece un sorriso sarcastico. «Un lavandino mangia-pillole si è ingoiato tutta la scorta.»
Fenstad scosse la testa: Fritz aveva ricominciato a sniffare le pastiglie. Telefonava almeno un paio di volte al mese, cercando di elemosinare una seconda e una terza ricetta.
Val proseguì. «Il gruppo di terapia è in subbuglio. Le telefonate sono arrivate per gran parte dalle famiglie. Sheila si è chiusa in camera e non lascia entrare nessuno. Dice che Albert è il diavolo e che la perseguita... il diavolo o Satana o non so cosa. Fa differenza?» Non lo chiedeva tanto per dire. Val sarebbe stata capace di passare tutta la vita impegnata in ponderazioni inani, scambiandole per riflessioni profonde. Lui si schiarì la gola, e lei riprese. «Ha telefonato il fratello di Bram, dice che Bram si è beccato chissà quale virus di influenza e vuole che gli prescriva qualcosa. Gli ho detto che non è compito suo, e di rivolgersi al loro medico curante.»
Fenstad sospirò. «Sono davvero diventati tutti matti.»
Val annuì come a significare:
Cosa ti avevo detto?
Dopo due sedute annullate (entrambi i pazienti erano a casa con la bronchite), verso mezzogiorno arrivò Lila con i suoi due figli, Alice e Aran. Era infagottata in una tuta da ginnastica di acrilico giallo e nero che le nascondeva tutte le curve. A un primo sguardo Fenstad quasi non la riconobbe, l'aveva sempre vista truccata e con i tacchi a spillo. I suoi figli sorprendentemente enormi le stavano alle spalle, come elefanti che cerchino rifugio dietro una palma. Con un cenno lui indicò il lettino, dove sedettero tutti e tre.
Nel muoversi Aran e Alice oscillavano come due budini. La ragazza indossava sandali di plastica con il tacco, un paio di jeans a vita bassa e un top senza maniche dal quale sbucavano i rotoli di ciccia. Il ragazzo aveva preferito una maglietta lunga e i jeans. Aveva i capelli scuri lucidi di unto.
«Ebbene?» domandò Fenstad, aprendo le mani.
La garza che ricopriva il polso tagliato di Lila spuntò dalla manica della tuta, che lei prese a tirare nervosamente. Non sorrise né ricorse alle sue solite moine. Lui non era sicuro di cosa significasse. O l'altro giorno era davvero riuscito a fare breccia, oppure lei era a un passo dal collasso nervoso.
«Non sono in sé» disse. «Avrei dovuto saperlo. Facevano i gentili per ingannarmi. Di solito mi odiano.»
Gli occhi dei ragazzi erano cerchiati da occhiaie così scure che sembrava se le fossero disegnate con il carboncino. Malgrado la stazza, il pallore della pelle e la letargia erano chiari sintomi di malnutrizione.
«I miei occhi» disse Aran, solo che suonò come un ordine.
Lila si diresse rapidamente alla finestra e abbassò la veneziana. «Il sole li irrita» spiegò.
Fenstad la raggiunse per parlarle in privato. Non si sorprese di fiutarle nell'alito un aroma di ciliegia. «Ha ricominciato a bere il Robitussin» disse.
«Non è questo il punto» rispose lei. Senza trucco appariva più giovane e carina. Una spruzzata di lentiggini le punteggiava il naso. Lui ricordò che Lila aveva solo diciott'anni quando aveva sposato Aran senior, un uomo molto più anziano di lei. Una sposa bambina.
Lila abbassò la voce. «Sono posseduti da qualcosa di maligno. Non so come liberarli.» Il suo alito lo sopraffece. Pensò a una sindrome di Munchausen vicaria, o a un delirio indotto dal Robitussin. Pensò a un tracollo nervoso totale, e a quei poveri ragazzi cui era toccato assistervi. Pensò a Sara Wintrob, e ai suoi ricci sudati di brunetta in un letto a baldacchino.
Annuì a Lila, poi si avvicinò alla ragazza. Doveva pesare più di cento chili, e non aveva ancora tredici anni. Se non fosse dimagrita avrebbe sviluppato un diabete prima del suo ventesimo compleanno. Lila aveva trascurato di informarlo che sua figlia era una scrofa. Qualcuno in quella casa, la stessa persona che comprava il Robitussin, comprava anche un sacco di merendine.
«Fai un respiro profondo» disse ad Alice, e lei eseguì. Il catarro le ostruiva i bronchi. Ansimò, e poi cominciò a tossire, riuscendo a inspirare aria per non più della metà della sua capacità polmonare. Lui le tastò il polso flaccido. Era freddo e sudato. La frequenza cardiaca era di circa cinquanta battiti al minuto. Per una ragazza di quella mole, un ritmo pericolosamente basso.
«E adesso diamo un'occhiata a te» disse al ragazzo. Aran era grosso quasi quanto sua sorella, ma con la fortuna di una massa muscolare che forse lo esonerava dal diventare lo zimbello della scuola. Dimostrava circa quindici anni, e Fenstad ricordò di aver sentito dire che militava in riserva nella squadra di lotta libera del liceo. Il sibilo nel suo respiro era identico a quello di Alice: sonoro e tubercolotico. Avevano entrambi anche un identico sfogo rosso sulle braccia e sulle mani. Lo sfogo era in piena fioritura, e costellava la pelle di minuscole gocce di sangue.
«Soffrono di allergie?» domandò.
«Ieri notte ho lasciato le finestra aperte per far girare un po' d'aria. Forse sono entrati degli insetti...» disse Lila.
Aran tossì. Non si portò la mano alla bocca, e uno schizzo di catarro atterrò sulla guancia di Fenstad. Ci rimase incollato per un secondo, poi scivolò verso il mento. Fenstad era un medico, certo. Non per questo era immune dal disgusto.
Aran e Alice cominciarono a ridacchiare. Sembravano così deboli che lui si sorprese ne avessero l'energia. Si asciugò la faccia con un fazzoletto di carta.
«Aran!» lo rimproverò Lila. «Chiedi subito scusa.»
I ragazzi fecero apposta a ridere più forte, e gli occhi di Fenstad si strinsero in due fessure. Erano abbastanza cresciuti da capire che Lila era fragile, e allora perché la punzecchiavano? «Dovreste avere cura di vostra madre» disse.
Lila si strinse le braccia intorno alla vita magra. Lui si rese conto che avrebbe dovuto ricoverarla molto tempo prima. Non aveva importanza che affidarli al padre non fosse un'alternativa accettabile: quei ragazzi erano ridotti a due rottami.
«Lila, li porto giù in pronto soccorso. Potrebbe essere polmonite.»
«No» disse Lila. «Ci avevo pensato anch'io, all'inizio. Ma non sono malati. Sono cambiati.»
«Su, forza» disse Fenstad ai ragazzi, e con un gesto indicò loro di alzarsi. Il ragazzo obbedì, ma la ragazza non ci riusciva. Fenstad la tirò in piedi per le braccia. La forza d'inerzia di tutto quell'adipe la proiettò in avanti, e Fenstad dovette afferrarla per impedirle di cadere nella direzione opposta. Mentre la reggeva, lei gli avvicinò la testa al petto e gli annusò la camicia. Il gesto non aveva niente di carino: era predatorio, e per un istante lui dimenticò che si trattava di una ragazzina. Gli si rizzarono i peli sulla nuca, e l'alito di lei lo riempì di ripugnanza. Sapeva di zolfo, di marcio. Lila aveva ragione. Questi ragazzi avevano qualcosa di sinistro. «Andiamo» disse, facendo strada verso il pronto soccorso.