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Authors: Sarah Langan

Virus (35 page)

Fece una lunga boccata dalla sigaretta e guardò il cellulare, dove non risultavano chiamate perse, e dove l'orologio segnava le dieci. Che non avesse avuto nemmeno il fegato di chiamare per salutarla? Le veniva da piangere, ma aveva già pianto a sufficienza. Voleva indietro la vita di un tempo, prima che lui si arruolasse, prima che David partisse per il college, prima della guerra fredda ingaggiata tra i suoi genitori che le metteva la nausea e le faceva venire il vomito ogni volta che si sedeva a colazione, prima del virus che aveva trasformato la sua città in un luogo silenzioso dove qualcosa era sempre in agguato. Voleva sua madre.

Trovò Meg che sorseggiava caffè nero da una enorme tazza verde al tavolo della cucina. Giocherellava con le chiavi del nuovo chiavistello e ascoltava la stazione radio del college, la Wmhb, che per una volta non trasmetteva musica ma un comunicato. Qualcosa a che fare con l'acqua in bottiglia, e su come fossero ipnotici gli occhi degli infetti.

Maddie si lasciò cascare sulla sedia accanto a Meg. «Non riesco a contattare Enrique. La mia vita è uno schifo» disse caustica. Poi vide le lacrime sulla faccia di sua madre. Il mascara le aveva disegnato sulle guance lunghi rivoli scuri. «Cosa c'è?» chiese.

Meg si asciugò gli occhi. Le sopracciglia, che non si depilava da una settimana, avevano cominciato a farsi folte. «Non preoccuparti. Va tutto bene.»

«Non è vero. Cosa c'è che non va?»

Meg scosse la testa. «Non è niente, Maddie.»

Maddie si alzò in piedi: «Ti hanno fatto del male?».

Meg fece tintinnare le chiavi. Ce n'erano quattro, e Fenstad aveva passato buona parte del sabato a installare le rispettive serrature con un trapano elettrico. Poi aveva raccolto le ossa degli animali e le aveva gettate nel bidone dell'immondizia senza fare una piega. Per tutto il giorno lei era rimasta a guardare la sua rabbia che ribolliva sotto la superficie, e con vent'anni di ritardo si era chiesta:
in che razza di situazione mi sono cacciata?

Si sforzò di sorridere, senza riuscirci. «Hai sentito il notiziario?»

«Non dopo ieri pomeriggio.»

Meg strinse una delle chiavi, e l'impronta le rimase sul palmo. Di solito la domenica mattina preparava una colazione abbondante, ma oggi se n'era dimenticata. A dire la verità, si era dimenticata anche di preparare la cena negli ultimi due giorni. Probabilmente la sua famiglia stava morendo di fame. «Siediti» disse.

Maddie guardò Meg per qualche secondo, ma non fece domande. Si mise seduta.

«Ieri notte sono morte delle persone» disse Meg.

«Enrique!» trasalì Maddie.

«Non lui, non che io sappia. Ma sono morte delle persone nel nostro quartiere, e in tutta la città.»

Le avevano telefonato amici e volontari della biblioteca. La gente stava cercando di lasciare la città, ma la I-95 era chiusa dai posti di blocco, e correva voce che chiunque avesse cercato di uscire dalle strade principali o persino attraverso il bosco sarebbe stato abbattuto a vista. Fece l'appello dei morti contandoli sulle dita mentre teneva fisso lo sguardo negli occhi di Maddie: «I gemelli Simpson.
Miller e Felice
Walker. Carl Fritz. Molly Popek.
Jean Rizzo.
E molti altri... Devi restare calma» disse. «Dobbiamo aiutarci a vicenda. Non possiamo permetterci che tu perda la testa.»

Maddie annuì, ma non disse niente, e Meg non fu sicura se fosse il segno di un'intenzione salda, o dello shock. «È il virus. Forse ieri non hai notato il papà che faceva sparire le carcasse, ma gli animali sono tutti morti. Non ne è rimasto nemmeno uno.»

«L'ho notato. Non volevo spaventarti» disse Maddie. Si era tolta lo smalto viola dalle unghie, e senza sembrava nuda.

Meg sorrise. Poi aggrottò la fronte, perché quello che doveva dirle adesso era una cosa brutta. «Per il momento sono solo voci, ma credo di dovertele riferire comunque, perché... perché io ci credo. Durante il giorno dormono per permettere al loro organismo di adattarsi all'infezione, ma di notte hanno fame. Mangiano tutto quello che trovano. Gli animali... Maddie, le persone che sono morte... Non è stato sempre perché i loro corpi non hanno retto al virus. Molti di loro sono stati sbranati.»

Il volto di Maddie avvampò. «Dov'è il papà?»

«Una sua paziente è rimasta intrappolata all'ospedale. È andato ad aiutarla a uscire. Tornerà presto. Quando arriva, propongo di lasciare la città. Andremo a stare dai genitori di tuo padre nel Connecticut.»

Gli occhi di Maddie erano umidi come quelli di un cervo. Non li asciugò, e le lacrime continuarono a scendere. «Enrique è scomparso» disse. «È venuto qui la scorsa notte, per dirmi che doveva partire questa mattina, ma credo che la cartolina l'abbiano spedita prima del virus. L'abbiamo fatto.»

Meg sgranò gli occhi. «Avete fatto sesso perché doveva partire? Maddie, è un trucco vecchio come il mondo!»

Maddie scosse la testa. «No... sono stata io a volerlo. Ma poi lui ha avuto paura che il papà lo trovasse qui così è andato a casa a piedi, al buio. Avrei dovuto fermarlo, lo so.» Una lacrima le scese lungo la guancia e la sua espressione mutò in rimprovero. «Io te l'avevo detto che Albert mangiava la gente! E come viene in mente al papà di andare in aiuto dei suoi pazienti, quando noi qui abbiamo bisogno di lui?»

Una ruga d'ansia attraversò la fronte di Meg. Voleva bene a Enrique, se ne rendeva conto solo adesso. «Non hai notizie di Enrique da ieri sera?»

Il volto di Maddie si pietrificò. «Vado fuori a cercarlo, mamma. Devo farlo. Prendo la bicicletta.»

Meg le appoggiò le mani sulle spalle. La caviglia aveva ripreso a farle male, ma aveva deciso di non prendere più codeina. Ne aveva presa troppa la sera prima, e invece di dormire aveva perso conoscenza. Al risveglio quella mattina l'avevano accolta la scomparsa di suo marito, il mal di testa, e la notizia che la vita che conosceva era finita. «Non saresti al sicuro là fuori da sola. La sua famiglia lo starà cercando. E poi, forse sono solo i telefoni che non funzionano, magari lui sta benissimo.»

«Ma io lo amo» disse Maddie. «Se ami qualcuno devi aiutarlo.»

Meg ci rifletté, e poi pensò a suo marito. «Fidati di me. Ti sto dicendo la cosa giusta da fare. Se è in ospedale lo troverà tuo padre, e se non è là e non è casa...» Meg meditò se proseguire o no, e poi decise che proteggere Maddie dalla verità equivaleva a farla ammazzare. «Probabilmente è già morto.»

Maddie si nascose la faccia tra le mani. «Oooohhh» disse mentre il corpo si svuotava letteralmente del suo respiro, e piegava in basso la testa sul petto. «Cosa sta succedendo?»

«Non lo so.»

«E se ha bisogno di me?»

Meg le tolse le mani dal volto e la guardò negli occhi. «Io ti voglio bene» disse. «Quello che ti ho detto è la verità. Fidati di me.»

Maddie annuì. I suoi occhi verdi erano così simili a quelli di Fenstad, in parte gli occhi di un estraneo, in parte gli occhi della sua anima gemella. «Mi fido» disse.

 

27.

Proprio come Lou McGuffin

 

Danny Walker aveva voglia di piangere, ma aveva paura di risvegliare i morti. Così si coprì la bocca con una mano e ingoiò le lacrime come se le stesse mangiando. Era seduto contro la parete fredda e umida del suo seminterrato. Dalle finestrelle al livello del terreno non filtrava luce e la giornata era piovosa.

Lo stomaco brontolò, e lui si chiese se non fosse stato contagiato. Cominciò a singhiozzare in convulsioni goffe, soffocate, e questo gli ricordò Felice, il cui momento di peggiore depressione coincideva sempre con l'alba, come se la promessa di un nuovo giorno la terrorizzasse. In quel momento la capiva perfettamente.

Poi sollevò la pistola che teneva in grembo, sfiorò con un dito il caricatore, e si chiese: chissà se è ancora triste adesso che è morta?

Dopo essere fuggito di casa la notte precedente, aveva guidato fino alla stazione di polizia, ma dietro il bancone non c'era nessuno, e nemmeno negli uffici. Aveva trovato solo Lou McGuffin, disteso a terra in una cella con la faccia sul pavimento. La camicia blu di Lou si era sfilata dai pantaloni, e Danny vedeva i fianchi molli del ventre che in tutti quegli anni aveva tenuto nascosto. Stringeva in pugno uno spazzolino da denti verde il cui manico di plastica era stato affilato fino a diventare tagliente. Una lima da galeotto. La tazza del gabinetto e il lavabo erano di porcellana bianca e il pavimento rivestito di piastrelle quadrate di granito. Danny cercò di concentrarsi su quello invece che sul corpo. Un altro cadavere. Si stavano accumulando, e per un breve istante si domandò se fosse stato lui, e non James, a commettere un omicidio.

«Signor McGuffin?» domandò. «Lou?»

Danny non voleva che Lou rispondesse. Aveva paura che l'uomo si alzasse in piedi e gorgogliasse: «Mi hai rovinato la vita, ragazzo».

Danny soffocò un gemito, principalmente perché non voleva sentire la propria eco in quel luogo deserto. Una settimana prima sorrideva soddisfatto davanti a una cena a base di bistecca al golf club, ospite di Miller Walker, re degli stronzi. Il rubinetto accanto alla branda di Lou perdeva. Il sangue imbrattava il pavimento, le lenzuola, lo spazzolino. Danny impiegò un po' a ricostruire gli eventi.

«Mi dispiace tanto» disse Danny, ed era vero. Gli dispiaceva che suo padre non ci fosse più, e gli dispiaceva che sua madre fosse finita a pezzi. Gli dispiaceva che suo fratello fosse uno schizzato fuori di testa, che godeva ad ammazzare animali grandi e piccoli già molto prima del virus. Gli dispiaceva essere stato un bullo, e non avere mai preso le difese delle persone che contavano. Gli dispiaceva aver deciso di venire alla stazione di polizia, dove aveva trovato soltanto quell'uomo sciocco che si era suicidato infilzandosi uno spazzolino da denti affilato. A quanto vedeva, la cosa gli era venuta piuttosto male, doveva avere impiegato ore a morire.

La tappa successiva fu l'ospedale, ma vi trovò il disastro. Medici e infermiere correvano in ogni direzione, e persino quando afferrava i loro camici bianchi macchiati di sangue come il grembiule di un macellaio, nessuno gli dava retta. Non c'era solo lui. La sala d'attesa era gremita di gente con gli occhi sbarrati in preda al panico. Tallonavano qualunque medico gli passasse davanti che fosse ancora in grado di reggersi in piedi. «Mia sorella... mia madre... mio fratello... mio padre... il mio migliore amico... sono morti... sono infetti... Cosa sta succedendo?»

Finalmente, nella mensa, dove il cibo era esaurito e non servivano più altro che caffè, trovò il capo della polizia, Tim Carroll. «La mia famiglia. Sono tutti morti» disse Danny.

Tim appoggiò la tazza di caffè e gli strinse forte la nuca. «È dura, ragazzo.»

«Mi può aiutare?» Danny deglutì come per ingoiare la vergogna, perché Miller gli aveva sempre detto che solo i deboli chiedono aiuto.

Tim restò a guardarlo per un po', poi fece un sospiro profondo. «No. Siamo troppo pochi, non possiamo aiutare nessuno.»

Danny si guardò le mani, arrossate da quando aveva scavato la fossa dei conigli alla discarica. «Lou McGuffin si è suicidato. Mio padre l'ha incastrato con la storia dei porno pedofili perché mio fratello gli ha ucciso i conigli» disse tutto d'un fiato. Poi alzò gli occhi. Tim rispose al suo sguardo, e questo gli piacque, perché non era come Miller, che lo fissava per costringerlo ad abbassare gli occhi.

«Conosco i metodi di tuo padre. La cosa si sarebbe sgonfiata da sé. È di Lou la responsabilità di quello che ha fatto a se stesso, non tua.»

«È colpa mia» disse Danny.

Tim scosse la testa. «Certe persone non hanno il minimo buon senso. Sono come quelle stelle marine, che si rovesciano solo per spaventare i predatori. Si feriscono ogni volta di più, e poi finiscono comunque mangiate. Hanno un istinto distorto, e tu non puoi farci niente. Quello che devi fare invece è trovarti un nascondiglio sicuro, e non muoverti da lì.» Poi prese il suo caffè, e uscì dalla mensa.

A quel punto, Danny aveva cominciato a camminare. Avvertiva qualcosa di imminente, come un temporale elettrico che sta per scoppiare. Quell'ospedale non era sicuro. C'erano troppi malati là dentro. Se il casino con James era cominciato con l'infezione, allora c'erano casini molto peggiori in arrivo.

Seguì il nastro giallo e il pensiero gli andò alla strada di mattoni gialli del Mago di Oz, e questo gli fece tornare in mente quando aveva cercato di insegnare a James a far diventare fosforescenti i Life Savers verdi. Persino allora, a luci spente, una parte di lui aveva paura di quel ragazzino.

Il nastro giallo diventò blu, il blu diventò verde, il verde diventò rosso. Il personale di turno quella sera non sembrava in grado di lavorare; la gran parte tossiva, e gli altri erano così esausti che si reggevano a stento.

Vide un cartello che recitava CAPPELLA DI SANTA LUCIA, e spiò all'interno. I parenti dei malati ingolfavano le panche. Alcuni stringevano un rosario. Alcuni tossivano. Molti piangevano e basta. Erano stipati l'uno accanto all'altro, e le pareti erano affrescate di immagini di pastori con le loro pecore.

Le giumente mangiano l'avena e i cerbiatti mangiano l'avena e gli agnellini mangiano la gramigna.

Quell'ospedale traboccava di infetti, e in mensa non c'era niente da mangiare. Pensò ai conigli divorati da James, e alle ossa che aveva visto sui prati di tutta Corpus Christi quella mattina. Gli venne un'idea, ma non era ancora pronto a pensarla fino in fondo, così in mancanza di meglio recitò mentalmente la filastrocca che in tempi migliori gli aveva insegnato sua madre.

Anche un bambino può mangiare la gramigna, non lo faresti anche tu?

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