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Authors: Sarah Langan

Virus (40 page)

La villa vittoriana

 

Quando Fenstad rincasò trovò le sue donne ad aspettarlo.

Maddie gli corse incontro e lui la abbracciò, rigido. «Papà, sono così felice di vederti sano e salvo. Hai visto Enrique?» domandò. I suoi occhi verdi lo guardavano dal basso in alto come quelli di un gattino.

«No, non l'ho visto.»

Meg attraversò zoppicando la cucina. Lui notò che la sua andatura era peggiorata da quando le avevano messo il gesso. Si rese conto con un gemito che la frattura stava calcificando male perché non usava più le stampelle. Sarebbe stato necessario rompere e fissare nuovamente l'osso se non voleva restare zoppa per sempre, ma non c'era nessuno in grado di farlo, tranne lui. Il solo pensiero di tornare in ospedale a prendere il gesso gli dette i brividi.

«Non sono riuscita a mettermi in contatto con David per avvertirlo, ma dobbiamo andarcene da qui» disse Meg.

Fenstad non rispose. Maddie si sciolse dal suo abbraccio e arretrò di un passo, e rimasero tutti e tre in piedi, in cerchio. Fuori era buio, e Meg aveva già sentito rumori che non le piacevano affatto. Gli animali non c'erano più, e allora chi latrava fuori dalla finestra? «Ho messo i nostri vestiti nella valigia sul letto. Andremo a stare dai tuoi genitori in Connecticut.»

«Non abbiamo benzina» disse Fenstad.

Meg si mise a perlustrare il contenuto degli armadietti in cucina. Da un giorno non prendeva più la codeina, e la caviglia era gonfia e le faceva male. Fitte di dolore cocente le trapassavano la gamba fino all'inguine.

Riempì d'acqua qualche barattolo, e poi cominciò a prendere cibi in scatola dalla dispensa. Mais, ananas sciroppato, tonno. In mancanza di meglio, era pur sempre un pasto. «Vai di sopra» disse a Maddie. «Prendi la borsa che hai preparato, e anche la mia e di papà.»

Maddie annuì con aria solenne e fece per uscire dalla cucina. Sembrava fosse invecchiata di dieci anni da quando quella mattina aveva sceso la scala al galoppo. Meg provò pena per lei. Per tutto il giorno aveva provato il desiderio di cedere e andare in cerca di Enrique. Ma se lo avessero trovato, e lui fosse stato infetto come gli altri?

Fenstad non la aiutò con le scorte. Sembrava che avesse pianto di nuovo, e lei sapeva che era un pessimo segno. «I chiavistelli sono stati un'ottima idea» disse. Lui non reagì. «Che cosa c'è? Cos'è successo? Hai fatto uscire Lila dall'ospedale? Serve che venga anche lei con noi?» domandò.

«Niente di straordinario. La solita routine» disse lui.

Lei inclinò la testa. «Ne dubito... Comunque, adesso dobbiamo andarcene.»

Fenstad non si mosse. «Non possiamo andarcene» replicò.

«Cristo, Fenstad. Guardati intorno. Dobbiamo andare via da qui!» urlò lei. Poi sentì una stretta alla gola, e si sforzò di non piangere. Abbassò la voce. «Non ce la faccio a restare qui.»

«È un virus. È dappertutto, Meg. A quest'ora si sarà preso il pianeta. Andarsene non cambierà niente.»

Lei appoggiò il palmo della mano sul pianale di marmo per tenersi in piedi. Poi fece un respiro profondo. «L'epicentro è qui. È qui che è cominciato tutto. Più ce ne allontaniamo e più saremo al sicuro.»

Lui scosse la testa. «Sei isterica. Devi ritrovare la calma. La cosa peggiore che potremmo fare adesso è sconvolgere anche Maddie. Partire così, senza un piano preciso, sarebbe un disastro.» La sua inflessione, notò lei, era particolarmente imperturbabile. Pronunciava ogni parola con cura, e senza enfasi.

«Che cos'hai?»

Lui la guardò per un momento, e strinse la mandibola sdegnato. «Sei tu quella ha qualcosa che non va. Non abbiamo scampo. Non appena metteremo piede fuori, e soprattutto di notte, loro... Non lo capisci? Hanno
fame.
»
Il suo sguardo si fece distante, e lei capì che stava ricordando qualcosa. Aveva tanto sperato che quelle voci fossero false. Aveva tanto sperato che lui le dicesse che c'era una spiegazione razionale. Ora sapeva che non era così.

Poi lui sorrise. Un sorriso vuoto, come se il vero Fenstad avesse deciso di fare un riposino dietro quegli occhi verdi. «Non abbiamo benzina. Credi di riuscire a raggiungere il Connecticut a piedi, con quella caviglia? Ehi, ho un'idea! Potremmo rubare un paio di fucili dalla stazione di polizia. Non che possano servire - tanto loro sono
già
morti. Poi andremo a piedi fino in Connecticut, al buio. Se anche i miei genitori sono infetti, li abbattiamo a fucilate! Sarà fantastico. Sei un genio, Meg.»

Meg chiuse l'anta della dispensa.
Che stronzo
,
fu il suo primo pensiero. Il secondo fu:
ha ragione.
Se avessero seguito il suo piano sarebbero morti, o peggio, sarebbero stati contagiati. Quando quella mattina aveva detto a Maddie che sarebbero partiti, aveva dato per scontato che Fenstad si sarebbe occupato di tutto. Una sola parola, e lui avrebbe organizzato ed eseguito. Le avrebbe caricate in macchina, e sarebbero arrivati a casa dei suoi genitori portati dalla forza di volontà di lei e dall'astuzia di lui. Durante il viaggio si sarebbe riposata un po'. Si sarebbe addormentata sul sedile posteriore, perché ci sarebbe stato Fenstad alla guida. Ma niente di tutto ciò sarebbe accaduto. Zoppicò verso di lui. Trascinava il piede sinistro sul pavimento. Non puliva la cucina da lunedì, e il gesso si era annerito per lo sporco. Quella casa si stava trasformando in un porcile. «E allora cosa facciamo?»

Lui strinse i denti. «Per l'ultima volta, vuoi deciderti a usare quelle fottute stampelle?»

«Ok» disse lei, e continuò a camminare verso di lui. Sentiva distintamente l'odore pungente del suo sudore. Le piaceva quell'odore: nessun altro aveva lo stesso profumo. Indossava gli stessi jeans e la stessa camicia da quattro giorni. Che strano: per lei era sempre stato un punto d'onore lasciargli ogni mattina una camicia fresca e stirata, pronta sopra la cassettiera.

«Dico sul serio. E prendi la codeina. Mi sento male solo a guardarti sudare in quel modo.»

«Lo so» rispose lei, e ora gli era vicina quanto bastava. Gli appoggiò la testa sulla spalla. Lui si irrigidì. Lei attese. Lui la circondò con le braccia. Lei si sorprese di avere le lacrime agli occhi. Lo strinse forte. «Ho paura» disse.

Lui le appoggiò il mento sulla testa, e prese un respiro che sembrava un singulto. Restarono così a lungo. Lei lo sentì rilassare i muscoli. Non si comportava come l'uomo che aveva sposato, che non alzava mai la voce. Che non esprimeva mai rabbia. Eppure, era bello stargli abbracciata. Era bello riposarsi là.

Alla fine si sciolse dall'abbraccio. «Non so proprio cosa farei senza di te» disse.

Lui aveva gli occhi arrossati. Annuì, come per dire che provava la stessa cosa, e lei si chiese come fossero riusciti in quegli ultimi anni ad allontanarsi tanto, quando in realtà c'era tanto amore a legarli. «Dimmi cosa ti è successo all'ospedale. Dimmi cos'hai visto» disse.

Lui guardò fuori dalla finestra per un po', e lei pensò che forse si era aperto un varco. Lo aveva costretto ad aprirsi. Il pensiero la spaventò, perché non era sicura di volerlo vedere oltre lo squarcio. Non era sicura di voler scoprire quello che avrebbe trovato quando le sue difese fossero crollate. «Racconta» aggiunse.

Un'unica lacrima gli scivolò lungo la guancia, e più di qualsiasi altra cosa fu quella lacrima a farle battere il cuore così forte che se lo sentì pulsare in tutto il corpo. Doveva essere stato terribile. «Il virus si impossessa della tua mente. Conosce i tuoi punti deboli. Come ha fatto con te. Con tuo padre. Ho picchiato una donna, Meg. Ho picchiato una mia paziente. Credo... temo di essere nel pieno di un collasso ner...» Fu interrotto da un fracasso in anticamera.

Si guardarono l'un l'altro, e Meg non poté impedirselo. Le sfuggì un singulto. Aveva sentito dire che di notte saccheggiavano le case. O anche peggio... Le ossa sul prato.

In anticamera, la vetrata colorata della finestra a bovindo era in frantumi. Sul tappeto persiano dell'ingresso c'era una grossa tegola del tetto. Fenstad si piegò e la studiò a lungo.

«Cos'è stato?» sbraitò Maddie scendendo le scale a rotta di collo.

«Non lo sappiamo. Torna in camera tua. Spranga le finestre. Chiudi le tende» disse Meg.

«Non posso essere d'aiuto?» domandò Maddie.

«Puoi esserci d'aiuto tornando in camera tua.»

Maddie si accigliò, ma non si oppose. «Se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi» disse, e risalì le scale.

Perso nei suoi pensieri, Fenstad alzò gli occhi dalla tegola. «Come potevano saperlo del cane? Sei stata tu a dirglielo?» domandò.

Di quale cane parlava?
Meg deglutì a fatica. La tegola gli pendeva tra le mani, come se dovesse cadergli da un momento all'altro, e lei capì cosa stava per dirle un attimo prima:
sono nel pieno di un collasso nervoso.

Prima che le riuscisse di formulare il pensiero per intero, il campanello suonò. Come un automa, Fenstad girò la chiave nella serratura. «No!» gridò lei, ma lui non le diede retta. Aprì la porta. Graham Nero ostentava un sorriso smagliante, ma aveva gli occhi neri. Persino da lontano, lei ci si vide riflessa.

«Posso entrare?» domandò. Aveva un tono garbato, ma stava a quattro zampe, come un lupo.

«Santo Dio» sussurrò Meg.

Lo sguardo di Fenstad passò da lei a Graham, e qualunque cosa stesse pensando, non le piacque affatto. Poi fece una cosa molto sciocca. Brandendo ancora la tegola, varcò la soglia verso l'esterno.

«Cosa vuoi?» domandò.

Graham fece un ghigno. Sbavava, e a parte il volto era irriconoscibile. Aveva il corpo pallido e glabro. «È stata lei a invitarmi. Mi ha anche detto di uccidere il cane. Abbiamo deciso di scappare insieme.»

Fenstad caricò. Fu un lampo così rapido che lei lo distinse appena. La sua mente ricostruì i frammenti e indovinò di cosa si trattasse. La tegola. Colse Graham alla sprovvista, e gliela conficcò nel petto. Graham gridò. Un latrato ansimante di dolore. Fenstad smosse la tegola, e la spinse più a fondo. Aveva la faccia madida di sudore. Lei avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma sapeva di dover guardare. Fenstad sorrideva. Un ghigno enorme. Liberò la tegola con uno strattone. Graham si trascinò carponi sul prato, ciondolando come un ubriaco. Fenstad lo colpì di nuovo, questa volta sulla nuca. Poi sollevò il braccio e colpì di nuovo. E di nuovo. E ancora.

A ogni colpo corrispondeva un suono cupo, ma secco. Chi l'avrebbe immaginato. Chi l'avrebbe mai detto. Meg voleva chiudere gli occhi ma non lo fece. Quell'uomo era suo marito. Doveva guardare. «Fermati» disse senza voce, perché di Graham non le importava più nulla, e nemmeno della loro incolumità. Voleva solo che Fenstad si fermasse. Voleva solo che quel sorriso sparisse. Lui aveva il fiato grosso. Anche dopo aver cancellato la faccia di Graham, continuò a colpire, finché nemmeno il cadavere somigliò più a un cadavere. Solo un ammasso raccapricciante.

«Fermati» sussurrò Meg. «Basta. Ti prego smettila. Oddio, smettila.»

Meg sentì una mano prendere la sua. La mano le era familiare, e automaticamente la strinse. Maddie. Non smise di piangere, anche se avrebbe voluto farsi forza per sua figlia. Non era mai stata tanto triste in vita sua. Non aveva mai immaginato che suo marito covasse dentro tanta violenza, né che potesse darle sfogo con tanto abbandono.

Dopo quelle che parvero ore, ma non furono forse che cinque minuti, Fenstad smise di colpire. La tegola ormai era in frantumi, e si era messo a usare i pugni. Aveva la camicia e la faccia ricoperte di sangue. Quando si girò verso la casa, d'istinto Meg spinse Maddie alle proprie spalle.

Andò verso di loro. Meg rabbrividì. Lui la spinse. Forte. Lei perse l'equilibrio, e cadde sul tappeto persiano nell'ingresso. Sentì uno schiocco. La caviglia. Il dolore fu così forte che per un paio di secondi perse i sensi. Quando riprese conoscenza, lui era ai suoi piedi mentre Maddie la tirava per le braccia. Trascinava il suo corpo lontano da lui e verso le scale.

Fenstad annuì a entrambe, e poi si diresse alla porta. La sbatté e tirò il chiavistello, chiudendo tutti dentro.

 

34.

La stanza 69

 

Maddie tirava Meg per le braccia, ma a ogni strappo Meg lanciava un grido di dolore. La caviglia le faceva troppo male. «Fermati!» implorò. Maddie lasciò la presa e si accucciò al suo fianco.

Fenstad invertì la rotta e andò in cucina. «Scappa!» sussurrò Meg, ma Maddie scosse la testa. «No, mamma. Non ti lascio sola.»

Poi lui fece ritorno con un gallone di vodka Grey Goose. Se la rovesciò sulle mani e sul volto, e poi spruzzò il resto addosso a Meg e a Maddie. «Papà! Smettila» strillò Maddie, ma a Meg non parve che avesse sentito. Gesù santo, voleva bruciarle vive?

Lui appoggiò la bottiglia sul pavimento, e si tolse di tasca una scheggia di tegola. Si avvicinò e Meg pensò:
ecco, è finita.

«Vai in camera tua, Madeline. Subito!» gridò Meg.

Maddie si gettò sul corpo di Meg. «No, papà. No! È morto. È tutto finito. No!» Un dolore pulsava nel grembo di Meg.
Scappa, Maddie. SCAPPA!
pensò, ma non voleva dirlo. Non voleva provocarlo con il suono della sua voce.

La scheggia pendeva tra le dita di Fenstad. Il suo volto era rosso di sangue, e i suoi occhi verdi luccicavano. «PAPA!» gridò Maddie.

Lui la sentì, e la sua postura si rilassò all'istante. Lasciò cadere la scheggia. «Probabilmente l'alcol lo uccide» disse. Poi tornò in cucina.

Maddie piangeva sottovoce, e Meg le accarezzò i ricci. «Presto. Aiutami a salire le scale, tesoro» bisbigliò.

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