Read 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire Online
Authors: Melissa Panarello
Questo è per la tua ignoranza, primo colpo, questo per la tua debole presunzione, secondo colpo, per tua figlia che non saprà mai di avere un padre come te, per tua moglie che ti sta vicino la notte, per non comprendermi, per non capirmi, per non aver colto l'essenza fondamentale di me che è la bellezza. La bellezza, quella vera, che abbiamo tutti e tu non hai. Tanti colpi, tutti duri, secchi, laceranti. Lui gemeva sotto di me, urlava, piangeva a tratti, e il suo orifizio si allargava e lo vedevo rosso di tensione e di sangue.
«Non hai più fiato, brutto schifoso?», ho detto con un ghigno crudele.
Ha urlato forte, forse ha provato un orgasmo e poi l'ha detto: «Basta, ti prego».
E io mi sono fermata mentre i miei occhi si riempivano di lacrime. L'ho lasciato sul letto, sconvolto, distrutto, completamente rotto; mi sono rivestita e nell'androne ho salutato la portinaia. Sono andata via e basta.
Quando sono arrivata a casa non mi sono guardata allo specchio e prima di andare a dormire non mi sono data cento colpi di spazzola: vedere il mio viso distrutto e i miei capelli scombinati mi avrebbe fatto male, troppo.
La notte è stata piena di incubi, uno in particolare mi ha fatto rabbrividire.
" Correvo per un bosco buio e arido inseguita da personaggi oscuri e malefici. Davanti ai miei occhi si ergeva una torre illuminata dal sole, proprio come Dante che cerca di arrivare al colle senza però riuscirci perché ostacolato dalle tre fiere. Solo che a ostacolarmi non erano in realtà tre fiere ma un angelo presuntuoso e i suoi diavoli, e dietro di loro un orco con il ventre sazio di corpi di giovani bambine, più lontano un mostro androgino seguito da giovani sodomiti. Avevano tutti la bava alla bocca e qualcuno si trascinava a stento strusciando il proprio corpo sulla terra secca. Io correvo voltandomi continuamente per paura che uno di loro mi raggiungesse; tutti urlavano frasi sconnesse, impronunciabili. A un certo punto non ho fatto caso all'ostacolo davanti a me e ho gridato forte e sgranando gli occhi ho osservato il volto bonario di un uomo che prendendomi per mano mi ha condotta attraverso bui passaggi segreti ai piedi dell'alta torre. Ha proteso il dito e ha detto:
«Sali per le scale e non voltarti mai, sulla cima ti fermerai e troverai quello che hai cercato invano nel bosco».
«Come posso ringraziarti?», ho chiesto in lacrime.
«Corri, prima che io mi ricongiunga a loro!», ha urlato scuotendo forte la testa.
«Ma sei tu, sei tu il mio salvatore.' Non ho bisogno di salire la torre, ti ho già trovato!», ho urlato questa volta colma di gioia.
«Corri!», ha ripetuto di nuovo. E i suoi occhi sono mutati, diventando famelici e rossi e con la bava alla bocca è scappato via. E io sono rimasta lì, ai piedi della torre con il cuore a pezzi.
I miei sono partiti per una settimana e torneranno domani. Per giorni ho avuto la casa libera e sono stata padrona di entrare e uscire quando mi sarebbe più piaciuto; all'inizio pensavo d'invitare qualcuno a passare la notte con me, magari Daniele che ho sentito un paio di giorni fa, oppure Roberto, o magari osare di chiamare Germano o Letizia, insomma qualcuno che mi facesse compagnia. Invece ho goduto della mia solitudine, sono rimasta sola con me stessa a pensare a tutte le cose belle e a tutte le cose brutte che mi sono capitate in quest'ultimo periodo.
So, diario, di avere fatto male a me stessa, di non avere avuto rispetto di me, della mia persona che io dico di amare tanto. Non sono tanto sicura di amarmi come una volta, una che si ama non lascia violare il suo corpo da qualsiasi uomo, senza uno scopo ben preciso e nemmeno per il gusto di farlo; ti dico questo per svelarti un segreto, un segreto triste che avrei, scioccamente, voluto nasconderti, illudendomi di potere dimenticare. Una sera mentre ero sola ho pensato che avrei dovuto svagarmi e prendere un po' d'aria, così sono andata al pub dove vado? sempre e fra un boccale e l'altro di birra ho conosciuto un tizio che mi ha abbordato con modi poco carini e poco garbati. Ero ubriaca, mi girava la testa e gli ho dato corda. Mi ha portata a casa sua e quando ha chiuso la porta alle sue spalle io ho avuto paura, una paura tre menda, che mi ha fatto passare subitaneamente la sbronza. Gli chiedevo di lasciarmi andare, ma lui non l'ha fatto obbligandomi con gli occhi pazzi e piccoli a spogliarmi. Impaurita l'ho fatto e ho fatto tutto quello che mi ha ordinato dopo di fare. Mi sono penetrata con il vibratore che mi ha messo in mano sentendo le pareti della mia va gina bruciare terribilmente e sentendomi strappare la pelle. Ho pianto mentre mi offriva il suo membro picco lo e molle e trattenendomi la testa con una mano non ho potuto evitare di fare ciò che voleva. Non riuscito a go-dere, sentivo le mie mandibole doloranti e i denti anche.
Si buttato sul letto e si addormentato di colpo. Istintivamente ho guardato il comodino e mi aspettavo di trovare i soldi che a una brava puttana sarebbero dovuti toccare. Sono andata in bagno, mi sono lavata il viso senza degnarmi nemmeno per un misero istante di guardare la mia immagine riflessa: avrei visto il mostro che tutti vogliono che io diventi. E non posso permettermelo, non posso permetterlo a loro. Sono sporca, solo l'Amore, se esiste, potrà ripulirmi.
Ieri ho raccontato a Valerio quello che mi successo l'altra sera. Mi aspettavo che dicesse «Arrivo subito» per prendermi fra le braccia e cullarmi, sussurrarmi che non avrei dovuto preoccuparmi di niente, ci sarebbe stato lui con me. Niente di tutto questo: mi ha detto con tono di rimprovero, aspro, che sono una stupida, una cogliona, ed è vero che lo sono, cazzo se è vero! Ma basto già io a colpevolizzarmi, non voglio le prediche degli altri, voglio solo che qualcuno mi abbracci e mi faccia stare bene. Stamattina è venuto all'uscita di scuola, non mi sarei mai immaginata una sorpresa simile. E arrivato in moto, capelli al vento e un paio di occhiali da sole che coprivano i suoi splendidi occhi; io chiacchieravo davanti a una panchina su cui erano seduti alcuni miei compagni di scuola. Avevo i capelli in disordine, la cartella pesante sulle spalle e il viso arrossato. Quando l'ho visto arrivare con il suo sorriso sornione e accattivante mi sono subito bloccata, rimanendo un attimo a bocca aperta. Velocemente ho detto «Scusate» ai miei compagni e sono corsa per strada per salutarlo. Mi sono lanciata contro di lui in maniera infantile, spontanea e alquanto eloquente. Mi ha detto che aveva voglia di vedermi, che gli mancavano il mio sorriso e il mio profumo, credeva di essere caduto in una sorta di crisi di astinenza da Lolita.
«Cosa guardano gli omogenizzati?», mi ha chiesto indicando con la testa i ragazzi nella piazzetta.
«Chi?», ho chiesto.
Mi ha spiegato che chiama così i ragazzini, tutti uguali l'uno con l'altro, ognuno membro dello stesso grande, enorme gregge, è un modo per distinguerli dal mondo adulto.
«Be', hai uno strano modo per definirci... comunque guardano la tua moto, guardano il tuo fascino e m'invidiano perché sto parlando con te. Domani mi diranno: ma chi era quel
ragazzo
con cui parlavi?».
«E tu lo dirai?», ha chiesto sicuro della risposta. E dato che quella sua sicurezza m'irritava ho detto: «Forse sì, forse no. Dipende da chi me lo chiede e come lo chiede».
Guardavo la sua lingua che inumidiva le labbra, guardavo le sue ciglia lunghe e nere da bambino e il suo naso che sembra la perfetta copia del mio. E guardavo il suo pene che si è ingrossato quando mi sono avvicinata al suo orecchio e gli ho sussurrato: «Voglio essere posseduta, adesso, davanti a tutti».
Mi ha guardata, mi ha sorriso tendendo nervosamente le labbra come per contenere una convulsa eccitazione e ha detto: «Loly, Loly... vuoi farmi impazzire?...».
Ho risposto di sì con un movimento lento del capo e accennando un sorriso.
«Fammi sentire il tuo profumo, Lo».
Gli ho allora offerto il collo candido e lui l'ha annusato riempendosi i polmoni della mia fragranza vanigliata e muschiata, poi ha detto: «Lo, adesso vado».
Non poteva andarsene, questa volta avrei giocato fino alla fine.
«Vuoi sapere che mutande ho oggi?».
Stava per riaccendere il motore ma mi ha guardata stupito e con la mente annebbiata ha risposto di sì.
Ho tirato all'infuori i pantaloni sbottonandoli un po' e si è reso conto che non portavo le mutande. Mi ha guardata cercando una risposta.
«Molte volte esco senza mutande, mi piace», ho risposto, «ricordi che non le avevo nemmeno la sera che l'abbiamo fatto per la prima volta?». «Tu così mi farai impazzire». Mi sono avvicinata al suo volto tenendo una distanza brevissima e perciò assai pericolosa e «Sì», gli ho detto guardandolo dritto negli occhi, «è quello che ho intenzione di fare».
Ci siamo guardati senza dire niente per molti minuti, a volte scuoteva la testa e sorrideva. Mi sono riawicinata al suo orecchio e gli ho detto: «Stuprami stanotte».
«No, Lo, è pericoloso», ha risposto.
«Stuprami», ho ripetuto maliziosa e imponente.
«Dove, Mei?».
«Nel posto in cui siamo andati la prima volta».
Sono scesa dalla macchina e ho chiuso lo sportello lasciando lui dentro l'auto. Mi sono incamminata per quelle strade buie e strettissime e lui ha aspettato un po' prima di ripartire per seguirmi. Mi sono ritrovata sola a percorrere quel selciato mal fatto, sentivo il rumore del mare in lontananza, poi più nulla. Guardavo le stelle e mi sembrava di dover cogliere anche il loro suono, impercettibile, esseri che brillano a intermittenza. Poi il motore e i fari della sua auto. Ho mantenuto la calma, volevo che tutto avvenisse come avevo programmato: lui carnefice, io vittima. Vittima nel corpo, umiliata e sottomessa. Ma la mente, la mia e la sua, la comando io, solo io. Io voglio tutto questo, io sono la padrona. Lui è un finto padrone, un padrone mio schiavo, schiavo dei miei voleri e dei miei capricci.
Ha accostato l'auto, ha spento i fari e il motore ed è sceso. Per qualche istante ho pensato di essere rimasta nuovamente sola dal momento che non sentivo niente...
Eccolo, lo sentivo: arrivava a passi lenti e tranquilli ma il suo respiro era veloce e affannato. L'ho sentito dietro di me, mi ha soffiato sul collo. Inaspettatamente ho provato paura. Ha cominciato a inseguirmi con più foga, corso verso di me e afferrandomi per un braccio mi ha sbattuta contro il muro.
«Le signorine con i bei culetti non girano sole per strada», ha detto cambiando la voce.
Con una mano mi teneva il braccio facendomi male, con l'altra mi spingeva la testa verso il muro premendo con forza il mio viso contro la superficie ruvida e fangosa.
«Stai ferma», mi ha ordinato.
Io aspettavo la mossa successiva, ero eccitata ma anche spaventata e mi chiedevo cosa avrei potuto provare se a violentarmi fosse stato davvero uno sconosciuto e non il mio dolce prof. Poi ho cancellato questo pensiero, ricordandomi di alcune sere fa, e tutte le violenze dell'anima a cui sono stata sottoposta così tante volte... e io volevo ancora violenza, violenza fino a non poterne più. Mi sono abituata, forse non posso più farne a meno; mi sembrerebbe strano se un giorno la dolcezza e la tenerezza venissero a bussare alla mia porta e mi chiedessero di entrare. La violenza mi uccide, mi logora, mi sporca e si nu-tre di me, ma con e per essa sopravvivo, di lei mi nutro.
Ha usato la mano libera per frugare nella tasca dei pantaloni. Cingeva forte i miei polsi bianchi, mi ha lasciata un momento e ha afferrato con l'altra mano quell'oggetto preso dalla tasca. Era una benda con cui ha fasciato la parte superiore del mio viso coprendomi gli occhi.
«Così sei bellissima», ha detto, «ti sto alzando la gonna bella puttana, non parlare e non gridare». .Sentivo le sue mani entrare dentro le mie mutandine e le sue dita accarezzare il mio sesso. Poi mi ha dato uno schiaffo violento, mi ha fatto gemere di dolore.
«Eh no... ti avevo detto di non emettere nessun tipo di suono».
«Veramente mi avevi detto di non parlare e non gridare, io ho gemuto», ho sussurrato consapevole che mi avrebbe punita per questo.
Infatti mi ha dato uno schiaffo ancora più violento ma io non ho emesso nessun suono.
«Brava Loly, sei brava».
Si è inchinato, tenendomi sempre ferma con le mani e ha cominciato a baciarmi i glutei su cui aveva scaraventato tanta violenza. Quando ha iniziato a leccarli piano il mio desiderio di essere posseduta è cresciuto, non potevo fermarlo. Così ho inarcato la schiena per fargli afferrare la mia voglia.
Per risposta mi è arrivato un altro schiaffo.
«Quando dico io», ha ordinato.
Potevo solo percepire i suoni e le sue mani sul mio corpo, mi aveva privata della vista e adesso del piacere assoluto.
Mi ha lasciato liberi i polsi e si è poggiato completamente su di me. Con entrambe le mani mi ha afferrato i seni, liberi di qualsiasi costrizione che potesse avvolgerli. Li ha afferrati con forza, facendomi male, li stringeva con le dita che sembravano pinze roventi.
«Piano», ho sussurrato con un filo di voce.
«No, sarà come dico io», ed è partito un altro schiaffo, violentissimo. Mentre arrotolava la gonna fino ai fianchi ha detto: «Avrei voluto resistere ancora, ma non ci riesco. Mi provochi troppo e non posso fare altro che assecondarti».
Con una steccata mi ha penetrata a fondo, riempiendomi completamente della sua eccitazione, della sua passione incontrollabile.
Un orgasmo forte, fortissimo, mi ha travolto il corpo, mi sono abbandonata al muro graffiandomi la pelle; lui mi ha trattenuta e sentivo il suo respiro caldo sul collo, il suo affanno mi faceva stare bene.
Siamo rimasti tanto tempo a quel modo, troppo tempo, tempo che non avrei voluto che finisse mai. Ritornare in macchina è stato ritornare alla realtà, fredda e crudele, una realtà che in quello stesso momento mi sono accorta che era inevitavile sfuggire: io e lui, il connubio delle nostre anime doveva finire lì, le circostanze non permetteranno mai a nessuno dei due di essere completamente e spiritualmente l'uno dentro l'altra.
Durante il tragitto, fermi nel traffico che sconvolge Catania la notte, mi ha guardata, ha sorriso e ha detto: «Loly, ti voglio bene», mi ha preso la mano, l'ha portata alla bocca e l'ha baciata. Loly, non Melissa. Lui vuole bene a Loly, di Melissa non ne ha mai sentito parlare.