Read 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire Online
Authors: Melissa Panarello
«Divertita ieri?», mi ha chiesto stamattina mia madre coprendo con uno sbadiglio il fischio della caffettiera.
Ho scosso le spalle e ho risposto che ho trascorso una serata come le altre.
«I tuoi vestiti facevano uno strano odore», ha detto con i soliti occhi di chi vuole sapere e capire tutto degli altri, a maggior ragione se si tratta di me.
Spaventata mi sono girata di scatto mordendomi le labbra, ho pensato che magari aveva sentito l'odore dello sperma.
«Di che cosa?», ho chiesto fìngendomi calma, osservando sbadatamente il sole oltre la finestra della cucina.
«Di fumo... che ne so... marijuana», ha detto con il volto disgustato.
Rincuorata, mi sono girata, ho sorriso lievemente e ho esclamato: «Be'... sai, nel locale di ieri c'era gente che fumava. Non potevo mica chiedere di spegnere».
Mi ha guardata con occhi torvi e ha detto: «Tornami a casa fumata e non esci più nemmeno per andare a scuola!».
«Mmm, bene», ho scherzato, «vedrò di trovarmi qualche pusher di fiducia. Grazie, mi hai dato un ottimo alibi per non frequentare quelle cazzo di lezioni».
...Come se quello che facesse male fosse solo l'hashish. Ne fumerei grammi e grammi pur di non provare questa strana sensazione di vuoto, di nulla. È come se fossi sospesa per aria, e sto ammirando dall'alto quello che ho fatto ieri. No, non ero io quella. Era quella che non si ama a lasciarsi sfiorare da mani avide e sconosciute; era quella che non si ama a ricevere lo sperma da cinque persone diverse e ad essere contaminata nell'anima, dove ancora il dolore non esisteva.
Quella che si ama sono io, sono quella che stanotte ha reso i suoi capelli nuovamente lucenti dopo averli spazzolati con cura cento volte, quella che ha ritrovato la morbidezza fanciulla delle labbra. E che si è baciata, condividendo con se stessa l'amore che ieri le stato negato.
Tempo di regali e di falsi sorrisi, di monetine gettate, con una momentanea dose di buona coscienza, fra le mani degli zingari con i bambini in braccio ai margini delle strade.
A me non piace comprare regali per gli altri, li compro sempre e solo a me stessa, forse perché non ho nessuno a cui farne. Questo pomeriggio sono uscita con Ernesto, un tipo che ho conosciuto in chat. Mi era sembrato subito simpatico, avevamo scambiato i numeri e abbiamo cominciato a vederci come buoni amici. Anche se lui è un po' distante, preso dall'università e dalle sue misteriose amicizie.
Usciamo spesso per fare compere e non mi vergogno quando con lui entro in qualche negozio di biancheria intima, anzi molte volte anche lui l'acquista.
«Per la mia nuova
ragazza»,
dice sempre. Ma non me ne ha mai presentata una.
Con le commesse sembra avere una buona confidenza, si danno del tu e ridacchiano spesso. Io rovisto fra gli ap-pendini cercando gli indumenti che dovrò indossare per colui che riuscirà ad amarmi. Li tengo ben ripiegati dentro il primo cassetto del comò, intatti.
Nel secondo cassetto tengo gli indumenti intimi che indosso durante gli incontri con Roberto e i suoi amici. Autoreggenti consumate dalle loro unghie e mutande in pizzo un po' slabbrato con piccoli fili di cotone che pendono perché tirati troppo da mani bramose. Loro non ci fanno caso, a loro basta che io sia maiala.
All'inizio compravo sempre biancheria intima in pizzo bianco, stando attenta a coordinarla bene.
«Il nero ti starebbe meglio», mi ha detto una volta Ernesto, «si abbina meglio ai colori del tuo viso e della tua pelle».
Ho seguito il suo consiglio, e da allora compro solo il pizzo nero.
Guardo lui interessato ai tanga colorati, degni di una ballerina brasiliana: rosa shocking, verde, blu elettrico, e quando vuole mantenersi sul serioso sceglie il rosso.
«Certo che sono proprio strane le tue tipe», gli dico.
Lui ridacchia e dice: «Mai quanto te», e il mio ego si ritrova nuovamente pompato.
I reggiseni sono quasi tutti imbottiti, non li coordina mai agli slip, preferisce accostare colori troppo inverosimili fra loro.
Poi le calze: le mie quasi sempre autoreggenti velate con la balza in pizzo, rigorosamente nere, che si scontrano nettamente con il biancore invernale della mia pelle. Quelle che compra lui sono a rete, troppo poco vicine ai miei gusti.
Quando una
ragazza
gli piace più delle altre, Ernesto si tuffa fra la folla di un grande magazzino e compra per lei abiti luccicanti arricchiti da paillettes multicolori, con scolli vertiginosi e spacchi audaci.
«Quanto prende a ora la ragazza?», scherzo io.
Lui diventa serio e senza rispondere va a pagare. Io allora mi sento in colpa e smetto di fare la stupidotta.
Oggi, mentre passeggiavamo tra i negozi illuminati e le commesse acide e giovani, la pioggia ci ha sorpresi ba gnando i nostri pacchetti di cartone spesso che tenevamo in mano.
«Andiamo sotto un portico!», ha detto forte mentre mi afferrava la mano.
«Ernesto!», ho detto a metà strada fra l'insofferente e il divertito. «In via Etnea non ci sono portici!».
Mi ha guardata interdetto, ha alzato le spalle e ha esclamato: «Andiamo a casa mia allora!». Non volevo andarci, ho scoperto che uno dei suoi coinquilini è Maurizio, un amico di Roberto. Non mi andava di vederlo, né tanto-meno che Ernesto scoprisse queste mie attività segrete.
Dal punto in cui eravamo, casa sua distava poche centinaia di metri che abbiamo percorso a passo veloce mano nella mano. È stato bello correre con qualcuno senza dover pensare che dopo avrei dovuto distendermi su un letto e lasciarmi andare senza freni. Mi piacerebbe, per una volta, essere io quella che decide: quando e dove farlo, per quanto tempo, con quanto desiderio.
«C' qualcuno in casa?», gli ho sussurrato salendo le scale, mentre la mia eco rimbombava.
«No», ha risposto lui con il fiatone, «sono tutti andati a casa per le vacanze. È rimasto solo Gianmaria, ma in questo momento è fuori anche lui». Contenta, l'ho seguito, fissandomi di sfuggita allo specchio alla parete.
Casa sua è semivuota e la presenza di quattro uomini è visibile: c'è un cattivo odore (sì, quell'opprimente odore di sperma) e il disordine tende a riempire le stanze.
Abbiamo scaraventato le buste per terra e ci siamo tolti i cappotti inzuppati.
«Vuoi qualche mia magliettina? Il tempo che i tuoi vestiti si asciughino».
«Va bene, grazie», ho risposto.
Arrivati nella sua camera-biblioteca, ha aperto l'armadio con un certo timore e, prima che fosse completamente schiuso, mi ha chiesto di andare di là a prendere i pacchetti.
Ritornata ha richiuso in fretta l'armadio e io divertita e bagnata ho esclamato: «Che ci tieni? Le tue donne morte?».
Ha sorriso e ha risposto: «Più o meno».
Mi ha incuriosita il modo in cui mi ha risposto e per evitare che gli facessi altre domande ha detto strappandomi le buste dalle mani: «Fammi vedere, su! Cos'hai comprato piccolina?».
Ha aperto con entrambe le mani il cartone bagnato e ci ha ficcato la testa come un bambino che riceve il suo regalo di Natale. I suoi occhi brillavano e con la punta delle dita ha estratto un paio di culottes nere.
«Oh-oh. E che ci fai con queste, eh? Per chi le indossi? Non credo che le usi per andare a scuola...».
«Abbiamo dei segreti, noi», ho detto ironica, conscia di insospettirlo.
Lui mi ha guardata stupito, ha inclinato un po' la testa a sinistra e ha detto piano: «Tu dici...? ...E sentiamo, che segreto avresti?».
Sono stanca di tenermelo dentro, diario. Gliel'ho detto. Il suo viso non ha cambiato espressione, è rimasto con lo stesso sguardo incantato di prima.
«Ma non dici niente?», ho chiesto infastidita.
«Sono scelte tue, piccola. Posso solo dirti di andarci piano».
«Troppo tardi», ho detto con un tono di fìnta rassegnazione.
Cercando di bloccare l'imbarazzo ho riso forte e poi ho detto con voce allegra: «Be', carino, adesso è il turno del tuo segreto».
Il suo biancore è divampato, gli occhi si muovevano in fretta per tutta la stanza, incerti.
Si è alzato dal divano letto a fiori sbiaditi e a grandi passi si è diretto verso l'armadio. Ha aperto un'anta con un gesto violento, ha indicato con un dito gli indumenti appesi e ha detto: «Questi sono miei».
Riconoscevo quegli abiti, li avevamo comprati insieme e stavano appesi lì senza etichetta e visibilmente usati e spiegazzati.
«Che vuoi dire, Ernesto?», ho chiesto piano.
I suoi movimenti si sono rallentati, i muscoli si sono rilassati e gli occhi guardavano a terra.
«Questi vestiti li compro per me. L'indosso e... ci lavoro».
Anche io l'ho privato di qualsiasi commento, in realtà non pensavo a niente. Poi un attimo dopo, nella mia testa, tutte le domande: ci lavori? come ci lavori? dove lavori? perché?
Ha cominciato lui, senza che io gli abbia chiesto qualcosa.
«Mi piace travestirmi da donna. Ho iniziato qualche anno fa. Mi chiudo nella mia camera, punto una telecamera sopra il tavolo e mi travesto. Mi piace, mi sento bene. Dopo mi osservo sullo schermo e... be'... mi eccito... E qualche volta mi lascio vedere in chat da qualcuno che me lo chiede», un rossore spontaneo e potente lo stava inghiottendo.
Silenzio ovunque, solo il rumore della pioggia che pioveva giù dal cielo, formando sottili fili metallici, che ci ingabbiavano.
«...Ti prostituisci?», ho chiesto senza mezzi termini.
Ha annuito, coprendosi subito il volto con entrambe le mani.
«...Meli, credimi, faccio solo servizi di bocca, niente di più. Qualcuno mi chiede anche di... qualche rotto in culo, insomma, ma giuro, non lo faccio mai... È per pagarmi gli studi, lo sai che i miei genitori non possono permettersi...», avrebbe voluto continuare, ripescare qualche altra giustificazione. Tanto lo so che a lui piace.
«Non ti biasimo Ernesto», ho detto dopo un po' osservando attenta la finestra su cui brillavano nervose le goccioline.
«Vedi... ognuno sceglie la propria vita, l'hai detto tu stesso qualche minuto fa. A volte anche le strade sbagliate possono essere giuste, o viceversa. L'importante è seguire noi stessi e i nostri sogni, perché solo se riusciremo a fare questo potremo dire di avere scelto bene per noi. A questo punto voglio sapere perché lo fai... davvero». Sono stata ipocrita, lo so.
Mi ha allora guardata con occhi teneri e pieni di domande; poi ha chiesto: «E tu perché lo fai?».
Non ho risposto, ma il mio silenzio ha detto tutto. E la mia coscienza urlava tanto che per tenerla a bada ho detto molto spontaneamente, senza vergognarmi: «Perché non ti travesti per me?».
«E adesso perché mi chiedi questo?».
Non lo sapevo nemmeno io.
Con un po' d'imbarazzo ho detto piano: «Perché bello vedere due identità in un corpo: uomo e donna nella stessa pelle. Un altro segreto: la cosa mi eccita. E anche tanto. E poi, scusa... è una cosa che piace a tutti e due, nessuno ci sta costringendo a farlo. Un piacere non può essere mai un errore, no?».
Vedevo il suo coso eccitato sotto i pantaloni e che tuttavia cercava di nascondersi.
«Lo faccio», ha detto secco. Dall'armadio ha preso un vestito e una maglietta che mi ha lanciato.
«Scusami, avevo dimenticato di prenderla. Mettila».
«Ma dovrò spogliarmi», ho detto io.
«Ti vergogni?».
«No no, figurati», ho risposto.
Mi sono spogliata mentre la sua eccitazione cresceva per la mia nudità. Mi sono infilata nella grande maglietta rosa su cui c'era scritto: Bye bye Baby, e un occhio ammiccante di Marilyn osservava la vestizione del mio amico, come una specie di rito sublime ed estatico. Si era vestito di spalle, ero solo riuscita a vedere i suoi movimenti e la linea del perizoma che divideva le sue natiche squadrate. Si è girato: minigonna nera corta, autoreggenti a rete, stivali molto alti, top dorato e reggiseno imbottito. Ecco come mi si presentava un amico che ho sempre visto in Lacoste e Levi's. La mia eccitazione non era visibile, ma c'era.
Dal perizoma striminzito il suo coso sbucava fuori senza problemi. L'ha spostato e si è sfregato l'affare.
Come in uno spettacolo, mi sono sdraiata sul divano-letto e l'ho guardato attenta. Avevo voglia di toccarmi, persino di possedere quel corpo. Mi ha stupita la mia freddezza, quasi maschile, con cui lo osservavo mentre si masturbava. Il suo volto era sconvolto e imperlato da piccole gocce di sudore, mentre il mio piacere arrivava senza penetrazione, senza carezze, solo dalla mente, da me.
Il suo invece è arrivato forte e sicuro, l'ho visto schizzare fuori e ho sentito il suo rantolo che si bloccato quando ha aperto gli occhi.
Si è disteso con me sul divano, ci siamo abbracciati e ci siamo addormentati con Marilyn che sfregava il suo occhio contro la perlina dorata del top di Ernesto.
Di nuovo nella casa-museo, con le stesse persone. Questa volta giocavamo che io ero la terra e loro i vermi che scavavano. Cinque vermi diversi hanno scavato solchi sul mio corpo, e il terreno, al ritorno a casa, era franoso e friabile. Una vecchia sottana ingiallita, di mia nonna, era stata appesa nel mio armadio. L'ho indossata, ho sentito il profumo dell'ammorbidente e di un tempo che non c' più che si mescolavano con l'assurdo presente. Ho sciolto i capelli sopra le spalle protette da quel confortante passato. Li ho sciolti, li ho annusati e sono andata a letto con un sorriso che presto si è trasformato in pianto. Mite.
A casa di Ernesto i segreti non sono stati troppi. Gli ho confidato che quello che era successo aveva fatto nascere in me il desiderio di vedere due uomini uno dentro l'altro. Voglio vedere scopare due uomini, sì. Vederli che si scopano così come finora hanno scopato me, con la stessa violenza, con la stessa brutalità.
Non riesco a fermarmi, corro veloce come un bastoncino che si lascia trasportare dalle correnti di un fiume. Imparo a dire di no agli altri e sì a me stessa e lasciare che la parte più profonda di me venga fuori sbattendosene del mondo circostante. Imparo.
«Sei una continua scoperta, Melissa. Come dire... una miniera di fantasie e immaginazione», ha detto con la voce roca del sonno da cui era appena uscito.
«Giuro, Ernesto. Sarei persino disposta a pagare», ho detto ancora abbracciata a lui.
«Allora?», ho chiesto spazientita dopo un po' di silenzio.
«Allora cosa?».
«Tu che sei, be'... del campo... non conosci nessuno disposto a farsi guardare?».
«Ma dai, che combini! Non puoi stare buona buonina a farti le tue storie normali?».
«A parte che stare buona buonina non mi si addice proprio», ho detto, «e poi cosa intendi come storie normali?».
«Storie da sedicenne, Meli. Tu ragazza, lui ragazzo. Amore e sesso bilanciati, quanto basta».
«Be', secondo me è quella la vera perversione!», ho detto isterica, «insomma... vita piatta: sabati sera in Piazza Teatro Massimo, domeniche mattina colazione in riva al mare, sesso rigorosamente nei fine settimana, confidenze con i genitori eccetera eccetera... meglio rimanere sola!».
Ancora silenzio.
«E poi io sono fatta così, non voglio cambiare per nessuno. Ma vedi però, senti chi parla!», gli ho urlato scherzosamente in faccia.
Ha riso e mi ha accarezzato la testa.
«Piccola, io ti voglio bene, non vorrei mai che ti succedesse qualcosa di spiacevole».
«Mi succederà se non farò quello che voglio. E anche io ti voglio bene».
Mi ha parlato di due
ragazzi,
studenti all'ultimo anno di giurisprudenza. Li conoscerò domani, dopo la scuola mi verranno a prendere a Villa Bellini, davanti alla fontana dove nuotano i cigni. Chiamerò mia madre per dirle che rimarrò tutto il pomeriggio fuori per il corso di teatro.