Read 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire Online
Authors: Melissa Panarello
Oggi mia madre a pranzo mi ha guardata con occhi investigativi e mi ha chiesto con un tono imponente cosa ho tanto da pensare in questi giorni.
«La scuola», ho risposto con un sospiro, «mi stanno riempiendo di compiti».
Mio padre continuava a inforchettare gli spaghetti, sollevando lo sguardo per poter meglio vedere al telegiornale gli ultimi risvolti della politica italiana. Mi sono asciugata le labbra alla tovaglia e l'ho macchiata di sugo; sono andata velocemente via dalla cucina mentre mia madre continuava a imprecare che non ho mai rispetto per niente e per nessuno, che lei alla mia età era responsabile e puliva le tovaglie piuttosto che sporcarle.
«Sì sì!», urlavo dall'altra stanza. Ho disfatto il letto e mi sono accucciata sotto le coperte, bagnando le lenzuola con le mie lacrime.
L'odore di ammorbidente si mischiava al bizzarro odore del muco che mi colava dal naso, l'ho asciugato con il palmo della mano e ho asciugato anche le lacrime. Ho osservato il ritratto appeso alla parete che un pittore brasiliano mi ha fatto a Taormina qualche tempo fa; mi aveva fermata mentre camminavo e mi aveva detto: «Hai un volto così bello, lascia che lo disegni. Lo faccio gratis, davvero».
E mentre la sua matita tracciava linee sul foglio i suoi occhi splendevano e sorridevano al posto delle labbra, che invece rimanevano chiuse.
«Perché pensa che abbia un bel volto?», gli ho chiesto mentre stavo in posa.
«Perché esprime bellezza, candore, innocenza e spiritualità», ha risposto con larghi gesti delle mani.
Dentro le coperte ho ripensato alle parole del pittore e poi alla scorsa mattina quando ho perso quello che il vec chio brasiliano aveva trovato di raro in me. L'ho perso fra delle lenzuola troppo fredde e fra le mani di chi ha divo rato il proprio cuore, e adesso non pulsa più. Morto. Io un cuore ce l'ho, diario, anche se lui non se ne accorge, anche se forse nessuno mai se ne accorgerà. E prima di aprirlo, a qualsiasi uomo darò il mio corpo, per due mo tivi: perché forse assaporandomi gusterà il sapore della rabbia e dell'amarezza e perciò proverà un minimo di te nerezza, poi perché s'innamorerà della mia passione fino a non poterne più fare a meno. Solo dopo darò compie tamente me stessa, senza indugi, senza costrizioni, perché niente di ciò che ho sempre desiderato venga perduto. Me lo terrò stretto fra le braccia e lo farò crescere come un fiore raro e delicato, attenta che uno schiaffo del ven to non lo sciupi all'improvviso, lo giuro.
Le giornate sono migliori, la primavera quest'anno esplosa senza mezze misure. Un giorno mi sveglio e trovo i fiori sbocciati e l'aria più tiepida, mentre il mare raccoglie il riflesso del cielo tramutandosi in un blu intenso. Come ogni mattina prendo lo scooter per arrivare a scuola; il freddo è ancora pungente, ma il sole nel cielo promette che più tardi la temperatura si alzerà. Sporgono dal mare i Faraglioni che Polifemo lanciò a Nessuno dopo che questi lo ebbe accecato. Sono conficcati sul fondo marino, stanno lì da chissà quanto tempo e né le guerre, né i terremoti e nemmeno le violente colate dell'Etna li hanno mai fatti sprofondare. Si ergono imponenti sull'acqua e nella mia mente penso a quanta mediocrità, quanta piccolezza possa esistere nel mondo. Noi parliamo, ci rimoviamo, mangiamo, compiamo tutte le azioni che per un essere umano è dovere compiere ma, a differenza dei Faraglioni, non rimaniamo sempre allo stesso posto, allo stesso modo. Ci deterioriamo, diario, le guerre ci uccidono, i terremoti ci sfiniscono, la lava c'inghiot-te e l'amore ci tradisce. E non siamo nemmeno immortali; ma forse questo è un bene, no?
Ieri le pietre di Polifemo sono rimaste a guardarci mentre lui si muoveva convulsamente sul mio corpo, non badando ai miei brividi di freddo e ai miei occhi puntati altrove, sul riflesso della luna in acqua. Abbiamo fatto tutto in silenzio, come sempre, allo stesso modo, ogni volta. Il suo viso affondava dietro le mie spalle e sentivo il suo fiato sul collo, non più caldo, ma freddo. La sua saliva bagnava ogni centimetro della mia pelle come se una lumaca lenta e pigra lasciasse la propria scia viscosa. E la sua pelle non ricordava più la pelle dorata e sudata che avevo baciato una mattina d'estate; le sue labbra non sapevano più di fragola, non avevano più nessun sapore. Al momento di offrirmi la sua pozione segreta ha emesso il solito rantolo di piacere, sempre più un grugnito. Si staccato dal mio corpo e si è sdraiato sul telo di fianco al mio, sospirando come se si fosse liberato da un peso ingombrante. Poggiando il corpo su un fianco ho osservato le curve della sua schiena e le ho ammirate; ho accennato un lento avvicinarsi della mano ma ho ritirato subito il mio gesto, intimorita dalla sua reazione. Ho continuato a guardare lui e i Faraglioni per molto tempo, un occhio a lui e un altro a loro; poi spostando lo sguardo mi sono accorta della luna in mezzo e l'ho guardata ammirata socchiudendo gli occhi per metterne a fuoco meglio la rotondità e il colore indefinibile.
Mi sono girata di scatto, come se all'improvviso avessi compreso qualcosa, un mistero prima irraggiungibile: «Non ti amo», ho sussurrato piano, come a me stessa.
Non ho nemmeno avuto il tempo di pensarlo.
Si è girato piano, ha aperto gli occhi e ha chiesto: «Che cazzo hai detto?».
L'ho guardato per un po' con il viso fermo, immobile e a voce più alta ho detto: «Non ti amo».
Ha corrugato la fronte e le sopracciglia si sono avvicinate, quindi ha esclamato forte: «Chi cazzo mai te l'ha chiesto!».
Siamo rimasti in silenzio, e lui si è spostato di nuovo di schiena; in lontananza ho sentito chiudere la portiera di un'auto e poi i risolini di una coppietta. Daniele si è girato verso di loro e infastidito ha detto: «Che cazzo vogliono questi... perché non scopano da un'altra parte e mi lasciano riposare in pace?».
«Avranno pure loro il diritto di scopare dove vogliono, no?», ho detto osservando il luccichio dello smalto trasparente sulle mie unghie.
«Senti gioia... non devi dirmi tu cosa devono o non devono fare gli altri. Decido io, sempre io, anche se sempre deciso e sempre deciderò io».
Mentre parlava mi sono voltata, infastidita, sdraiandomi sul telo umido; lui mi ha scosso rabbiosamente le spalle ed emetteva suoni indecifrabili a denti stretti. Non mi sono mossa, ogni muscolo del mio corpo era fermo.
«Tu non puoi trattarmi così!», urlava, «tu non puoi sbattertene di me... quando parlo devi stare ad ascoltare, e non permetterti più di girarti, hai capito?».
Allora mi sono voltata di scatto, gli ho afferrato i polsi e li ho sentiti deboli sotto le mie mani. Ho provato pietà per lui, mi sono sentita stringere il cuore.
«Io starei ad ascoltarti per ore e ore se solo mi parlassi, se solo me lo permettessi», ho detto piano.
Ho visto e sentito il suo corpo rilassarsi e i suoi occhi stringersi e piegarsi alFin giù.
È scoppiato in lacrime e si è coperto il volto con le mani per la vergogna; poi si è accucciato nuovamente sopra il telo e a gambe piegate rassomigliava ancora di più a un bambino indifeso e innocente.
Gli ho dato un bacio sulla guancia, ho piegato silenziosa e cauta il mio telo, ho raccolto tutte le mie cose e piano mi sono diretta verso la coppietta. Erano entrambi abbracciati, l'uno sentiva l'odore dell'altro annusando il suo collo; mi sono fermata un attimo a guardarli e fra il leggero rumore delle onde del mare ho sentito un «ti amo» sussurrato.
Mi hanno riaccompagnata a casa, li ho ringraziati scusandomi di averli interrotti ma loro mi hanno rassicurata dicendomi che erano felici di avermi aiutata.
Adesso diario mentre ti scrivo mi sento in colpa. L'ho lasciato sulla spiaggia umida a piangere lacrime dure e pietose, sono andata via come una vigliacca e ho lasciato che si facesse del male. Ma ho fatto tutto per lui, e anche per me. Spesso mi ha lasciata piangere e invece di stringermi mi ha mandata via deridendomi; adesso non sarà un dramma per lui rimanere solo. E non lo sarà nemmeno per me.
Sono felice, felice, felice! Non è successo niente per cui debba esserlo, eppure lo sono. Nessuno mi chiama mai, nessuno mi cerca, eppure sprizzo allegria da tutti i pori, sono contenta all'inverosimile. Tutte le paranoie le ho scacciate via, non ho più l'ansia nell'attendere una sua telefonata, non ho più quell'angoscia di sentirlo sopra di me dimenarsi infischiandosene del mio corpo e di me. Non devo più raccontare bugie a mia madre, quando, tornata da chissà quale posto, mi chiedeva dove fossi stata. E io puntualmente rispondevo con una qualunque cazzata: al centro a bere una birra, al cinema oppure a teatro. E prima di addormentarmi fantasticavo con la mente e pensavo cosa avrei fatto se davvero fossi andata in quei posti. Mi sarei divertita, certamente, avrei conosciuto gente, avrei avuto una vita che non fosse solo scuola, casa e sesso con Daniele. E adesso quest'altra vita la voglio, non importa quanto c'impiegherò, adesso voglio qualcuno a cui interessi Melissa La solitudine mi sta distruggendo forse, ma non mi fa paura. Io sono la migliore amica di me stessa, io non potrei mai tradirmi, mai abbandonarmi. Ma forse farmi del male, farmi del male forse sì. E non perché godo nel farlo, ma perché voglio punirmi in qualche modo. Ma come fa una come me ad amarsi e punirsi nello stesso tempo? È una contraddizione, diario, lo so. Ma mai amore e odio sono stati così vicini, così complici, così dentro di me.
Oggi l'ho rivisto, ha abusato ancora una volta, e spero per l'ultima, dei miei sentimenti. È iniziato tutto come sempre, ed è finito tutto allo stesso modo. Sono una stupida, diario, non avrei dovuto permettergli di avvicinarsi ancora.
È finita, per sempre. E mi compiaccio a dire che io non sono finita, anzi, sto ricominciando a vivere.
Forse Daniele sta guardando le stesse immagini alla TV, le stesse che vedo io.
La scuola è iniziata da poco e già si respira il clima di scioperi, manifestazioni e assemblee con sempre gli stessi argomenti; immagino già i volti arrossati di quelli del collettivo che si scontrano contro quelli di azione. Fra qualche ora comincerà la prima assemblea di quest'anno, che avrà come argomento la globalizzazione; in questo momento sono in aula, durante un'ora di supplenza, dietro di me ci sono alcune mie compagne che parlano dell'ospite che terrà l'assemblea stamattina. Dicono che sia un bel tipo, con un viso angelico e un'intelligenza acuta, sghignazzano quando una di loro dice che l'intelligenza acuta le interessa ben poco, le interessa di più il viso angelico. Quelle che stanno parlando sono le stesse che qualche mese fa mi hanno sputtanata in giro dicendo che l'avevo data a uno che non era il mio ragazzo; e io mi ero fidata di una di loro, le avevo raccontato tutto di Daniele e lei mi aveva abbracciata, pronunciando un «mi dispiace» palesemente ipocrita.
«Perché, non ti faresti sbattere da uno così?», chiede la stessa di prima a un'altra.
«No, lo violenterei contro la sua volontà», risponde ridendo l'altra.
«E tu Melissa?», mi chiede. «Tu cosa ci faresti?».
Mi sono voltata e le ho detto che non lo conosco e che non ho voglia di fare niente. Ora le sento ridere, e le loro risate si confondono con il suono metallico e squillante della campana che indica la fine dell'ora.
Sul palchetto montato per l'assemblea, non mi sono curata delle dogane abbattute o dei McDonald's incendiati, sebbene sia stata scelta per verbalizzare l'incontro. Sulla lunga scrivania io ero al centro, ai miei lati gli ospiti delle avverse fazioni. Il ragazzo dal viso angelico era seduto accanto a me, con una penna in bocca che rosicchiava indecentemente. E mentre il destriota convinto si scontrava con il sinistriota accanito, i miei occhi osservavano la biro blu incastrata fra i denti di lui.
- «Scrivi il mio nome fra gli interventi», ha detto a un certo punto con il viso rivolto al suo foglietto degli appunti.
«Qual il tuo nome?», ho chiesto con tono discreto.
«Roberto», ha detto questa volta guardandomi, sorpreso che non lo sapessi già.
Si è alzato per parlare, il suo discorso era forte e coinvolgente. Lo osservavo mentre si muoveva con fare disinvolto tenendo in mano il microfono e la penna, la platea attentissima sorrideva per le sue battute ironiche che sapevano colpire nel punto giusto. È uno studente di giurisprudenza, pensavo, normale che abbia certe abilità oratone; notavo di tanto in tanto che si girava per guardarmi e io, un po' maliziosamente eppure in maniera naturale, ho aperto la camicetta scoprendo il collo, fino alla congiuntura dei seni bianchi. Forse si è accorto del mio gesto e infatti ha iniziato a voltarsi più spesso e con aria un tantino
imbarazzata
e incuriosita mi lanciava delle occhiate, almeno così mi è sembrato. Finito il discorso, si seduto e ha rimesso la penna in bocca non badando agli applausi che gli venivano rivolti. Poi si girato verso di me, che nel frattempo avevo ricominciato a verbalizzare, e ha detto: «Non ricordo il tuo nome».
Ho avuto voglia di giocare: «Non te l'ho ancora detto», ho risposto.
Ha mosso leggermente in su la testa e ha detto: «Già!».
L'ho visto ricominciare a scrivere i suoi appunti, mentre io un po' sorridevo, contenta che lui stesse aspettando che gli dicessi il mio nome.
«E non vuoi dirlo?», ha chiesto scrutandomi attentamente il viso.
Ho sorriso candidamente: «Melissa», ho detto.
«Mmm... hai il nome delle api. Ti piace il miele?».
«Troppo dolce», ho risposto, «preferisco i sapori più forti».
Ha scosso la testa, ha sorriso e abbiamo continuato a scrivere ognuno per conto proprio. Dopo un po' si è alzato per fumare una sigaretta e lo vedevo ridere e gesticolare animatamente con un altro ragazzo, anch'egli molto bello, e talvolta mi guardava e sorrideva portando la sigaretta mozzata in bocca. Da lontano sembrava più sottile e slanciato e i suoi capelli sembravano morbidi e profumati, piccoli boccoli color bronzo che cadevano dolcemente sul viso. Stava poggiato al palo della luce trasferendo tutto il peso su un'anca, che sembrava tirasse su con la mano dentro la tasca dei pantaloni, una camicia a quadrettoni verdi balzava fuori scomposta e gli occhiali rotondi completavano il suo aspetto da intellettuale. Il suo amico l'avevo visto parecchie volte fuori da scuola che distruibuiva volantini, porta sempre un toscanello in bocca, acceso o spento che sia.
Finita l'assemblea stavo raccogliendo i fogli sparsi per la scrivania che avrei dovuto allegare al mio verbale, a un certo punto è arrivato Roberto che mi ha stretto la mano e mi ha salutata con un largo sorriso.
«Arrivederci, compagna!».
Mi sono messa a ridere e gli ho confessato che essere chiamata compagna mi piace, è divertente.
«Su su! Che fai lì a chiacchierare? Non vedi che l'assemblea è finita?», ha detto il vicepreside battendo le mani.
Oggi sono contenta, ho fatto questa bella conoscenza e spero che non finisca qui. Lo sai, diario, io persevero molto se voglio raggiungere qualcosa. Adesso voglio il suo numero e sono sicura che riuscirò a ottenerlo. Dopo il suo numero vorrò quello che tu già sai, ossia prendere spazio fra i suoi pensieri. Ma prima di ciò sai cosa devo dare...